Truffaut è senza ombra di dubbio uno dei registi più importanti del XX secolo e la sua carriera è costellata di film che sono diventati delle pietre miliari della storia del cinema.
I 400 colpi, Jules e Jim, Effetto Notte, Fahrenheit 451 sono sicuramente le sue pellicole più amate e più note. Ma quali sono i film meno conosciuti del maestro François Truffaut? Noi di Cabiria Magazine ve ne consigliamo tre:

La calda amante ( La Peau douce – La dolce pelle)

Ho voluto fare La Peau douce proprio per dimostrare che l’amore è qualcosa di molto meno euforico ed esaltante. L’ho fatto quindi in risposta a Jules e Jim: ci sono le menzogne, il lato sordido, la doppia vita. È un film da incubo

François Truffaut

Questo film del 1964 fu presentato alla 17esima edizione del Festival di Cannes.
In realtà,  fu un autentico fiasco, il peggiore della carriera di Truffaut. Ad accoglierlo in sala ci furono una selva di fischi, perché sia il pubblico che la critica si aspettavano un secondo Jules e Jim, non di certo un dramma borghese basato sul canonico triangolo marito-moglie-amante di lui. Niente più spiriti giovani e anarchici, dunque per il regista della Nouvelle Vague.

(Questo film) era il meno sentimentale di tutti. C’è come una specie di autopsia, di aridità, e ne ho sofferto perché mi impediva di essere caldo, partecipe o di far entrare del calore nel film”

François Truffaut

In effetti, ciò che all’ epoca non piacque fu la freddezza con cui la vicenda è raccontata.  
Pierre Lachenay (Jean Desailly), scrittore affermato, diventa l’amante di una hostess (Françoise Dorléac), ma la reazione fallisce. Pierre tenta di tornare con la gelosissima moglie (Nelly Benedetti), ma è ormai tardi e la tragedia è dietro l’angolo. 

Truffaut voleva raccontare questa storia in forma oggettiva, senza partecipazione. Lo dimostra il fatto che nel film sono quasi più importanti le cose che le persone. La macchina da presa si sofferma sugli oggetti inanimati: dall’anello dei titoli di testa al semaforo che non scatta, dai pulsanti alle  tastiere e alle chiavi, dalle scarpe in fila alle porte dell’hotel, dai pacchetti di sigarette agli interruttori della luce. L’intero film vive di tempi morti e oggetti inanimati.

Questo feticismo di Truffaut culmina nella scena in cui il protagonista inizia a spogliare l’amante mentre lei si addormenta (o finge di dormire) nella camera d’albergo: una situazione che il regista riproporrà in “La mia droga si chiama Julie” con Catherine Deneuve a ripetere la scena già interpretata dalla sorella Françoise Dorléac.  Questa scena è l’unica che permette di intravedere un’allusione erotica in tutta la pellicola ed è l’unico momento in cui Pierre fa qualcosa di spinto. Approfittando della situazione, il timido scrittore accarezza le gambe della sua amante fino ad arrivare al reggicalze. Lo slaccia, abbassa i collant e gode del contatto diretto con la sua “calda amante”.

Tutte le scene di casa Lachenay sono state girate nell’appartamento di Truffaut che all’epoca condivideva con la moglie Madeleine e le due figlie.  Nel corso delle riprese era iniziata una relazione del regista con Françoise Dorleac. Come accadrà più volte nella sua carriera, la sua vita personale s’intreccerà con quella cinematografica.
Alla fine delle riprese Truffaut scrisse all’amica Helen Scott:

Madeleine e io ci separiamo. Girare La peau douce è stato duro, e adesso, a causa della storia stessa che il film racconta ho orrore dell’ipocrisia coniugale: è un momento in cui sono davvero esasperato”.  Insomma, un triangolo nella finzione e uno nella realtà.

Il tempo ha reso giustizia a questo film, tra i più intensi del cinema del padre della Nouvelle Vague.
La critica tende, infatti, a considerare La Peau douce come uno dei lavori più personali e radicali di Truffaut.  Peccato la traduzione in italiano che non rende minimamente giustizia al titolo originale. L’intenzione  del regista francese  era quella di evocare qualcosa di epidermico, superficiale, in un clima di realismo glaciale. 
La storia di un adulterio senza passione… altro che calda amante!

Del resto, questo non è di certo l’unico caso in cui le case di distribuzione italiane hanno stravolto i titoli di un film. Uno dei casi più clamorosi è sempre legato a Truffaut: il suo “Domicile coniugale” è diventato “Non drammatizziamo: è solo questione di corna”.  

La camera verde

A otto anni di distanza da Il ragazzo selvaggio François Truffaut torna a vestire i panni di attore protagonista in questo melò  alla ricerca del tempo perduto. 
La camera verde è il film più tetro del regista d’oltralpe; quello che più si distacca dagli altri della Nouvelle Vague e dalle pellicole di Godard in particolare.

Nel 1978 Truffaut  realizza un’opera sull’importanza del ricordo e sul rifiuto del presente. Eppure la grande protagonista di questo lungometraggio non è la morte, ma la vita. Truffaut analizza l’amore e la morte ispirandosi liberamente a due racconti di Henry James e ad alcune lettere dello scrittore alla fidanzata defunta.

Nonostante il tema, non c’ è orrore in questo film. E’, invece, un trionfo della tenerezza truffautiana.

Julien Davenne (François Truffaut) è un vedovo di provincia che non accetta la perdita della moglie Julie e trasforma la loro stanza in un santuario: la camera verde. L’uomo è un giornalista specializzato in annunci funebri e il pensiero della morte è un chiodo fisso.
Durante un temporale divampa un incendio che distrugge la stanza dei ricordi. Il vedovo riesce a salvare le foto e i ritratti della moglie, ma si rende conto che deve fare molto di più per onorare la sua memoria. Scopre una cappella abbandonata nello stesso cimitero dove è sepolta Julie e  capisce che ha finalmente  trovato il luogo giusto per completare la sua opera.

 Julien  decide di restaurare la cappella. Il suo scopo, però, non è solo quello di consacrarla a sua moglie, ma a tutte le persone defunte che hanno contato nella sua vita.  
Quel luogo sacro, così, si trasforma in un mausoleo di foto appese alle pareti illuminate da una distesa di candele accese.  La sua ossessione ben presto lo allontana dal presente, dalle simpatie di tutti. Nemmeno l’amore della giovane  Cécilia ( Nathalie Baye ),  che condivide con lui la custodia della cappella, riesce a riportarlo alla vita. Per Julien è impossibile chiudere la porta del passato.

Il film è ricco di aneddoti e omaggi a intellettuali, artisti e amici del regista. Con il pretesto di dedicare nella cappella una foto e un cero alle persone amate da Julien, Truffaut mette in scena le immagini di Oscar Wilde, Henry James, Cocteau, Honoré de Balzac, Raymond Queneau e la moglie Henri-Pierre Roché.  Sono particolarmente degne di nota le fotografie di Marcel Proust ( che dedicò la sua esistenza ai meccanismi dell’oblio e del ricordo, temi centrali di questo film)  e di Oskar Werner, coprotagonista di “Jules e Jim”.

Inoltre, Truffaut rende omaggio a Luis Buñuel nella scena in cui Julien fa realizzare la statua di ceramica della moglie, fallendo l’obiettivo di feticizzazione. Un chiaro tributo a Estasi di un delitto del regista spagnolo naturalizzato messicano.

Lei è giovane, ma vedrà che a un certo punto della vita si conoscono più morti che vivi.”

Dialogo tra Julien Davenne (François Truffaut)  e Cecilia (Nathalie Baye) dal film La camera verde

Questo melodramma sul vivere per ricordare ed essere ricordati puo’ essere considerato una sorta di testamento personale di Truffaut.
La pellicola è un ringraziamento alle persone importanti della sua vita;  implicitamente vorrebbe che lo stesso venga fatto nei suoi confronti, quando sarà il suo momento. Inoltre, il film contiene un altro messaggio implicito: una metafora sulla regia.

Il cinema ha il potere di riesumare i morti, di rendere immortali gli attori; riesce a fissare in immagini il tempo perduto. La volontà di Julien di mantenere vivo il passato coincide con quella di Truffaut. Non è sicuramente un caso che il regista abbia deciso di stare anche davanti la macchina da presa ne La camera Verde.  
Ancora una volta, la vita e il cinema coincidono in Truffaut.  Ma forse, come direbbe Ferrand di “Effetto notte”: Il cinema è meglio della vita.

Finalmente domenica!

Il 1983 è l’anno in cui François Truffaut realizza il suo ultimo lungometraggio: Finalmente Domenica! Tratto dall’omonimo romanzo di Charles Williams, questo film noir ha una trama piuttosto semplice.  

Un uomo viene ucciso durante una battuta di caccia e la polizia sospetta del marito della sua amante, Julien Vercel (Jean-Louis Trintignant).  Barbara, (Fanny Ardant) ex segretaria di Vercel,  lo toglie dagli impicci.  Nel corso delle indagini tra i due brillerà la fatale scintilla d’amore.

L’ultimo film di Truffaut  è un omaggio ai B-movie noir americani degli anni ’50.  Per riprodurre quel tipo di atmosfere, gira  bianco e nero e si affida alla fotografia di Néstor Almendros con cui aveva girato  Il ragazzo selvaggio (1969).

Tuttavia, Finalmente Domenica! si distingue dal genere noir e nella pellicola emerge la personalità del regista. La protagonista non è una femme fatale, anzi è dalla parte della legge; la donna che ha innescato la catena di omicidi è una delle prime vittime; infine, il film si trasforma man mano in una commedia grottesca ricca di situazioni improbabili.

Una delle scene  più memorabili è sicuramente quella in cui il responsabile degli omicidi, messo sotto pressione, si ritrova a fumare due sigarette contemporaneamente. L’arma del delitto è una Torre Eiffel “in scala”; l’eroina una segretaria intraprendente con un impermeabile alla Bogart.  Più che un noir anni ‘40 è una commedia degli equivoci tinta di giallo. Tra ironia, false piste e raggiri, Truffaut si diverte non tanto a raccontarci l’intrigo da risolvere, ma nel giocare con  uno dei suoi temi preferiti: il rapporto uomo-donna.

L’ultimo lungometraggio del maestro della Novelle Vague è costruito intorno al corpo di Fanny Ardant (all’ epoca anche compagna del regista).  Dopo aver girato insieme il thriller “La signora della porta accanto”,  Truffaut la immaginò subito protagonista di questa storia. Scelta perfetta dato che in lei convivono la sofisticatezza delle dive della Old Hollywood e l’ammaliante charme francese.

Finalmente Domenica! è un film da vedere assolutamente… fino alla fine dei titoli di coda! Infatti,  le emozioni non si concludono con la fine della storia, ma bisogna andare oltre. Le ultime immagini lasciateci da François Truffaut sono quelle che scorrono  durante  i titoli:  dei piedi dei bambini che  giocano col paraluce di un obiettivo fotografico, mentre si celebra il matrimonio del personaggio interpretato da Fanny Ardant (che all’epoca aspettava una figlia da lui).  Un’ultima dichiarazione d’amore per il mondo dell’infanzia, così caro al regista, e al cinema che, ancora una volta, era per Truffaut una commistione di realtà e finzione.