I videogiochi del penultimo decennio del secolo scorso presentano nella schermata d’avvio un’unica dicitura, ovvero quel Ready Player One che dà il nome al romanzo sci-fi di Ernest Cline e all’adattamento sul grande schermo diretto da Steven Spielberg. Dopo aver raccontato lo scandalo dei Pentagon Papers in The Post, il regista di Incontri Ravvicinati del Terzo tipo e A.I. – Intelligenza Artificiale cambia medium d’interesse, passando dalla stampa a una realtà virtuale talmente evoluta da diventare l’ultimo e rassicurante rifugio dell’umanità dallo squallore imperante.

Anno 2045. L’inquinamento e la sovrappopolazione hanno cambiato la vita sulla Terra. L’unico strumento d’evasione da un pianeta inospitale è OASIS, il programma di virtual reality partorito dalla mente di James Halliday (Mark Rylance). Prima di morire, il genio “nerd” aveva rivelato l’esistenza di un gioco il cui premio consiste nel totale controllo del software, oltre ai miliardi da lui lasciati. Come tanti altri, anche l’orfano diciottenne Wade Watts, aka Parzival (Tye Sheridan), affronta la sfida, mentre la multinazionale IOI del magnate Nolan Sorrento (Ben Mendelsohn) cerca di vincere in tutti i modi.

Non risulta difficile cercare di stabilire un punto di contatto tra la mastodontica finzione al centro di Ready Player One e l’Isola che non c’è dello Spielberg di Hook – Capitan Uncino. Se i bambini sperduti vivono in un’oasi lontana dal mondo che li ha scartati, Watts e il gruppo di amici conosciuti su OASIS sono stati abbandonati e, peggio ancora, “sfruttati” da un’economia basata sul debito e accecata dal profitto. Ma soprattutto, entrambi i (non) luoghi sono teatro di un percorso che fonde il coming of age al viaggio dell’eroe, in linea con il gusto spielberghiano per un ragionato divertissement.

Stavolta però lo spazio è riservato ai sensi, abbondantemente storditi dalla tracotanza visiva e sonora di un prodotto d’intrattenimento (auto)referenziale, pieno fino al midollo di prospettive trompe-l’œil. Perno dell’opera è l’amore per la cultura pop degli anni ottanta (e non solo) in ogni forma, sapientemente filtrato attraverso lo storytelling a tappe tipico del videogame e che tanto deve alla settima arte. Navigando tra citazioni ed easter egg, Spielberg utilizza il rapporto mutuale tra i due ambiti per conferire alla narrazione la forza centripeta necessaria a evitare una caduta nel vuoto, la stessa che separa gli abitanti di OASIS dalla scomparsa.

Ready player oneSe Rylance costruisce una figura ricca di sfumature nonostante le brevi apparizioni, il resto del cast di Ready Player One brilla più nei panni degli alter ego digitali. Quando i visori e le tute aptiche vengono disattivate lo script curato da Cline e da Zak Penn mostra un’inaspettata incapacità di trovare il giusto equilibrio nei legami tra i personaggi, lasciando in sospeso o appena abbozzate le interazioni più importanti. Impegnato a inseguire le dinamiche della simulazione anche dall’esterno, il regista di Minority Report non mette a fuoco l’obiettivo sul tangibile, svista paradossale per una pellicola che invita proprio a rimpossessarsi del reale.