L’amicizia, quella vera, si sa, è cosa rara e preziosa. Ma cosa accadrebbe se, di punto in bianco, uno dei nostri più cari amici decidesse di non rivolgerci più la parola, senza alcun motivo apparente? Questo, purtroppo, è ciò che è accaduto al povero Padraic (impersonato da Colin Farrell), protagonista di uno dei lungometraggi che maggiormente hanno entusiasmato pubblico e critica, in corsa per l’ambito Leone d’Oro alla 79° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia: The Banshees of Inisherin, ultima fatica del regista-rivelazione Martin McDonagh, che già nel 2017 aveva riscosso grande successo al Lido con il suo Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (insignito del Premio Osella alla Miglior Sceneggiatura).

Ma di cosa tratta, di fatto, il nostro The Banshees of Inisherin?
Presto detto. Come già accennato, la storia messa in scena è quella di Padraic, che vive in una remota isola irlandese insieme a sua sorella Siobhan (Kerry Condon) e che è solito trascorrere i pomeriggi nel pub del paese in compagnia del suo migliore amico Colm (Brendan Gleeson). Giunto, un pomeriggio, a casa di quest’ultimo, egli scoprirà che il suo amico, appunto, non vuole più parlargli, per il semplice fatto che “non gli va più a genio”. La cosa lo sconvolgerà ancora di più nel momento in cui Colm affermerà che, se dovesse provare a rivolgergli la parola, arriverà al punto di tagliarsi le dita della mano con delle cesoie. A scapito della sua passione per il violino.

Già con queste premesse, dunque, ci rendiamo subito conto che The Banshees of Inisherin è decisamente il film che non ci si aspetta. Un film che parte da una situazione al limite del paradossale e che tramite una tanto sottile quanto intelligente ironia cattura immediatamente l’attenzione dello spettatore.

La storia si svolge nel 1923, quasi cento anni fa. Sarà semplicemente un caso? Difficile immaginare che un regista del calibro di McDonagh abbia lasciato qualcosa al caso. E, infatti, questo suo importante e imponente lungometraggio potrebbe essere letto come un ritratto del genere umano atto a dimostrare come, nonostante il passare del tempo e a prescindere dal luogo in cui ci si trova, determinate dinamiche interpersonali siano destinate a restare immutate.

Oggi ci sono i social media (dove è molto semplice ignorare qualcuno o eliminarlo dagli amici), ieri, invece, tutto accadeva “faccia a faccia”. E all’interno di un piccolo paese completamente isolato dal resto del mondo (interessante notare come della guerra civile i protagonisti possano percepire soltanto degli spari in lontananza) la cosa salta ancora di più all’occhio, dando adito ai più disparati pettegolezzi.

The Banshees of Inisherin, dunque, è un crescendo di situazioni estreme, che, forte di una scrittura robusta e compatta, gestisce i progressivi cambi di registro in modo del tutto fluido e naturale, sia che si tratti di mostrare semplicemente momenti di profonda solitudine all’interno della propria abitazione, che dita insanguinate lanciate contro la porta di casa.

E poi, naturalmente, c’è la particolare location in cui la storia si svolge, trattata quasi alla stregua di vera e propria coprotagonista. I totali sulle suggestiva stradine in pietra completamente immerse nel verde riprese dall’alto tramite dolly ci danno l’idea di quanto, di fatto, i personaggi, siano davvero isolati e stanno quasi a trasmettere un profondo senso di agorafobia.

La piccola isola di Inisherin è a tutti gli effetti un mondo a sé. Un mondo dal quale è difficile fuggire, ma di cui, una volta fuori, non si è ufficialmente più parte. Un mondo in cui ci si conosce tutti, ma in cui è anche molto facile sentirsi soli, soprattutto quando chi ci è sempre stato vicino decide di abbandonarci per sempre. Proprio come accade, di fatto, all’interno di qualsiasi altro contesto sociale. Ci sarà mai possibilità di salvezza? Probabilmente, soltanto gli animali, con il loro affetto istintivo e incondizionato, saranno in grado di alleviare ogni sofferenza.