Un piccolo cinema di provincia rischia di chiudere per sempre, dopo molti e molti anni di attività. Cittadini di ogni età ed estrazione sociale tentano di evitare in ogni modo tale chiusura. Il capolavoro di Frank Capra La Vita è meravigliosa (1946) prende vita in una forma del tutto insolita sul palcoscenico del suddetto cinema. E, improvvisamente, la speranza sembra ancora giocare un ruolo fondamentale.
Basterebbe questa toccante scena di Splendor (1988) per rendere l’idea di quanto il regista e sceneggiatore Ettore Scola amasse il cinema. Il cinema in ogni sua forma. Film che parlano a tutti, che sono in grado di regalare a grandi e piccini anche solo qualche ora di relax e spensieratezza.
Il cinema che, per tutta la sua vita, ha fatto da grande protagonista.

E proprio lui, Ettore Scola, ha contribuito a scrivere un capitolo fondamentale della storia del cinema italiano, tracciando un ritratto sincero ed esaustivo – e spesso anche ironico e graffiante – della società in cui viviamo, ma anche della recente storia della nostra nazione.

Nato a Trevico, in provincia di Avellino, il 10 maggio 1931, Scola esordisce dapprima come giornalista per la rivista Marc’Aurelio (dove hanno scritto, tra gli altri, anche Federico Fellini, Cesare Zavattini, Furio Scarpelli e Agenore Incrocci (in arte “Age”). Proprio insieme agli sceneggiatori Age & Scarpelli Ettore Scola farà il suo debutto al cinema – dapprima anch’egli in qualità di sceneggiatore – con i lungometraggi Un Americano a Roma (Steno, 1954), La Grande Guerra (Mario Monicelli, 1959) e Crimen (Mario Camerini, 1960).

Doveva passare ancora qualche anno, tuttavia, prima che il cineasta decidesse di cimentarsi per la prima volta dietro la macchina da presa. Ciò, tuttavia, avvenne finalmente nel 1964, quando Scola diresse Se permette parliamo di Donne, che avrebbe sancito la nascita di una lunga e prolifica collaborazione tra il regista e l’attore Vittorio Gassman, una delle colonne portanti del lavoro di Scola, insieme a Marcello Mastroianni e a Nino Manfredi.

Da quel momento in avanti, la carriera del regista gli avrebbe regalato soddisfazioni sempre più grandi, sia in Italia che al di fuori dei confini nazionali. Avrebbero fatto a loro modo la storia del cinema italiano (e non solo) pellicole del calibro di Il Commissario Pepe (1969), C’eravamo tanto amati (1974), Una Giornata particolare (realizzato nel 1977 e considerato il suo più celebre lungometraggio), La Terrazza (1980) e La Famiglia (1987), giusto per fare qualche esempio.

Ma cosa ha fatto, dunque, del cinema di Scola una tappa fondamentale nella storia della filmografia italiana?
In che modo il regista è riuscito – meritatamente – a entrare nell’Olimpo dei Grandi?
Semplice (ma non troppo): solo una grande sensibilità, uno spiccato spirito di osservazione e – non per ultima – una solida conoscenza del mezzo cinematografico sono stati in grado di fotografare in modo realista e spesso ironico il popolo italiano, la sua storia, le sue abitudini, il suo modo di pensare. E nel fare ciò, Ettore Scola non ha avuto pietà per nessuno. O forse ne ha avuta per tutti.

Realtà e fantasia. Dramma e speranza. Il destino crudele e, al contempo, una forte, fortissima, voglia di combattere, di non lasciarsi andare. La storia del nostro paese e le numerose guerre vengono raccontate dal regista attraverso storie di singoli e senza edulcorazione alcuna. E proprio per questo sono diventate immortali. In seguito all’incontro con Mastroianni – prossimo a essere deportato in un campo di concentramento – Sofia Loren scopre un nuovo modo di comprendere la realtà (in Una Giornata particolare). Allo stesso tempo, la classe intellettuale di sinistra viene osservata sotto la lente di ingrandimento e viene spogliata di ogni suo orpello, dopo che ogni sua più ipocrita abitudine è stata portata alla luce in una sorta di accusa/mea culpa che il regista ha messo in atto già dalle prime scene (in La Terrazza).

Un forte – e spesso crudele – realismo fa (quasi sempre) da protagonista, tuttavia, di quando in quando, viene stemperato anche da una sorta di sospensione dell’incredulità e da una messa in scena che non ha paura di sperimentare nuovi linguaggi cinematografici (come è stato nell’ottimo Ballando ballando, realizzato nel 1983 e in cui viene raccontato – esclusivamente tramite le storie di un gruppo di persone solite frequentare una sala da ballo e senza che ci sia bisogno di dialogo alcuno – mezzo secolo di storia francese).

Il cinema di Ettore Scola è stato tutto questo e molto di più. Un cinema in grado di parlare una lingua universale, di rivolgersi a tutti, di fare di un’apparente semplicità e di una sottile arguzia i suoi cavalli di battaglia. Un cinema che non ha mai esitato a omaggiare il cinema stesso, ora con il bellissimo Splendor, appunto, ora addirittura con un documentario dedicato a un altro grande maestro della storia del cinema, nonché grande amico di Scola stesso: Federico Fellini. E, di fatto, il documentario Che strano chiamarsi Federico (2013) è l’ultimo regalo che Ettore Scola ci ha fatto. Coronamento di una carriera di tutto rispetto, che ancora oggi, a sei anni dalla morte del regista (avvenuta il 19 gennaio 2016), riesce a farci ridere, piangere e profondamente emozionare.