Tre film per conoscere Sofia Coppola sembrano pochi per inquadrare una regista, sceneggiatrice e produttrice cui corpo d’opera è in continua crescita, ma vista la voce di corridoio che vorrebbe in anteprima mondiale alla prossima Mostra del cinema di Venezia il suo nuovo film Priscilla, è interessante esplorare la sua penna e il suo impatto nella storia del cinema moderno, anche per arrivare preparati a questo nuovo titolo.

Il grazioso e il linguaggio: le chiavi per conoscere Sofia Coppola

Prima di indicare le pellicole da vedere, doverose sono le precisazioni del perché i film di Sofia Coppola sono molto piú di un capriccio ben riuscito della figlia del regista de Il padrino.

Inutile dire che la famiglia Coppola è una vera e propria industria di talenti da generazioni, ma Sofia è probabilmente colei cui successo è stato il meno previsto dai media: forse per via di un retaggio culturale misogino, forse per l’interpretazione di Mary Corleone, Sofia Coppola è diventata solo col tempo una delle nepobaby preferite dai cinefili (che sono da sempre incontentabili, si sa).

I film di Sofia Coppola sono prevedibili, a volte iniziano con il finale, sono spesso storie vere e conosciute…insomma, sono pellicole che dovrebbero annoiare, eppure – inaspettatamente – si fanno guardare.

Quando si parla di Sofia Coppola, si parla spesso della “politica del grazioso”, che indica come la regista sfida il pregiudizio che ciò che è esteticamente piacevole e femminile sia in realtà frivolo o insignificante. Al contrario, tale scelta visiva esplora il potere del bello (statico o in movimento che sia) per raccontare storie complesse e svelare – appunto – la politica dietro scelte di costume e galateo, cui le donne sono spesso le vittime principali.

Sono le immagini evocative e le sequenze da video musicale ad incollare lə spettatore, poiché tutto quello che accade in scena espone i personaggi nella loro intimità e nella loro superficialitá, tra luci soffuse, inquadrature particolari (da dietro, da sotto, da fuori…) e una colonna sonora che racconta il non detto. Le sue immagini appaiono piacevoli, ma denotano qualcosa che possiamo cogliere solo guardando di traverso.

Questa situazione intimista fa conquistare a Sofia sia il Golden Globe sia l’Oscar come migliore sceneggiatura originale per Lost in translation (2003), film con protagonista Bill Murray e Scarlett Johansson che interpretano rispettivamente Bob Harris e Charlotte: lui è un attore in declino arrivato a Tokyo per realizzare filmati pubblicitari, lei è una laureata in filosofia che accompagna il marito fotografo in giro per lavoro.

Nonostante le loro differenze, i due riescono a comprendere il vuoto dell’altro con una delicatezza unica. Mentre tutto attorno a loro è frenetico, i protagonisti trovano un amico (o un amore, dipende dalla lettura che si preferisce fare) a cui dovranno dire addio ma che lascerà loro la consapevolezza di aver creato una connessione. 

Questo film meriterebbe un’analisi approfondita a parte, ma si può dire che l’elemento principale che scaturisce da tale pellicola e dal registro di Sofia Coppola è il linguaggio (in Lost in Translation è ciò che unisce i due americani e che diventa la colla del loro microcosmo), l’universo che esso può creare e i gesti e gli sguardi che lo compongono. 

Ma non per questo motivo i film di Sofia Coppola sono pieni di dialoghi, tanto che quando ci sono spesso il contenuto verbale è vacuo e sono i sottotoni a creare la magia.

La componente non verbale e quella paraverbale sono dimensioni cui Sofia Coppola utilizza per parlare di ciò che conosce, che spesso sono gli unici modi per scoperchiare quello che appare superficiale, colorato o sfarzoso.

E le sue muse Kirsten Dunst, Elle Fanning, Bill Murray e Scarlett Johansson sono magnifiche con le loro espressioni, i loro sguardi e i loro delicati gesti che personificano precisamente questo stile.

Mettendo da parte i protagonisti di Lost in Translation, Sofia Coppola sfrutta il non detto per illustrare sullo schermo le contraddizioni e i bisogni adolescenziali, soprattutto quelli femminili, utilizzando in forte contrasto la patina pastello e coquette della sua estetica filmica.

Il giardino delle vergini suicide (1999), Maria Antonietta (2006) e Bling Ring (2013) sono tre film che incarnano questa matrice narrativa di Sofia Coppola. Il genere è quello che potremmo chiamare il “nuovo cinema adolescenziale”, che si sposta dal romanzo di formazione e che a sua volta si sta aggiornando con nuove narrazioni che si discostano dalla “ragazza bianca annoiata e in trappola” (tra l’altro, è da notare come nei film di Sofia mancano protagonisti di colore e le loro implicazioni, probabilmente perché non ne ha esperienza essendo lei stessa una donna bianca e privilegiata).

Nonostante ciò non si può ignorare come i film di Coppola siano diventati i capisaldi di questo rinnovato cinema. 

Il giardino delle vergini suicide, il debutto di Sofia Coppola

« Evidentemente lei, dottore, non è mai stato una ragazzina di tredici anni. »

A distanza di tempo, questa frase stringe ancora lo stomaco. Le prime parole di Cecilia Lisbon esprimono il disincanto che si vive in quegli anni, periodo della vita in cui tutti dicono che sia (falsamente) il migliore. 

Lei soffre di quello che oggi chiameremo “eco ansia” e disdegna come i suoi coetanei disumanizzano un amico con disabilità: la sua è la realtà di molti con una soluzione drastica.

Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides) è un film del 1999 diretto da Sofia Coppola, basato sul romanzo omonimo di Jeffrey Eugenides. 

Ambientato nel Michigan di metà anni Settanta, il lungometraggio narra la storia delle cinque sorelle Lisbon che “vivono” la loro adolescenza in una famiglia repressa, portandole inesorabilmente al suicidio.

L’accoglienza del film è stata più che positiva per essere il debutto di una “ventottenne figlia di papà” e i motivi di questo cambio di rotta nei confermo di Sofia Coppola sono molteplici, dagli interpreti (Kirsten Dunst, Hanna R. Hall…) alla colonna sonora, tutto coniato dalla cifra stilistica della regista.

In particolare, Sofia Coppola utilizza la voce narrante di un adulto, che ricorda e cerca di spiegare il punto dei ragazzi del vicinato, per indicarne le sue criticità e i suoi limiti.

I ragazzi dicono di amare le sorelle Lisbon, ma in realtà le idolatrano, le oggettivizzano, le sessualizzano e le infantilizzano (come quando pensano che il sucidio di Cecilia sia stato un tentativo di volare) e poi le abbandonano quando hanno raggiunto il loro obiettivo (cosa che fa Tripp con Lux).

Le sorelle sono un oggetto delle fantasie del gruppo dei ragazzi e non viene affatto capito il loro dolore. 

L’idea cristiana della Vergine Maria è controllante e consumante e viene applicata non solo dai ragazzi che le guardano come eteree creature da deflorare, ma soprattutto dalla madre che vede le figlie come oggetti puri che non possono essere toccati dal mondo esterno. 

Sofia Coppola riesce ad illustrare questo binomio puttana-vergine e il suo pesante riscontro tra le adolescenti anche con le immagini, creando una sorta di nebbiolina grazie a luci soffuse verdi per tutto il film, quasi a dare lo stesso senso di asfissia che provano le ragazze, protagoniste della loro prigione prima metaforica e poi reale.

Il loro suicidio, dunque, che appare agli adulti e ai ragazzi indecifrabile e drastico per degli anni che presto fuggiranno dalle dita (e quindi inutile) è in realtà la risposta ad uno stato di inadeguatezza che sará sempre presente nella vita della donna, cui operato verrá sempre giudicato.

Il film è disponibile per lo streaming su Prime Video.

Maria Antonietta, il cult di Sofia Coppola rivalutato col tempo

« Tutto questo è ridicolo. »

« Tutto questo, madame, è Versailles. »

Così la Contessa de Noailles (Judy Davis) risponde a Maria Antonietta, nella famosa scena della matinèe preparatoria della regina. Che sia storicamente preciso o meno, quello che salta subito all’occhio è che la parola “Versailles” può essere sostituita senza problemi da “Camp”, quasi come un segno premonitore di come il film possa essere incompreso, proprio come il kitsch nell’arte e come la manipolazione ironica della storia possa evidenziare temi che non erano mai stati trattati prima d’ora. 

Dunque, non è un caso che Maria Antonietta (Marie Antoinette) abbia raccolto pochi consensi al Festival di Cannes e pesanti critiche dal New Yorker, eppure Le Monde e il Sunday Times lo rivalutano, divenendo complici del successo al box office.

Uscito nel 2006, Sofia Coppola trae da Maria Antonietta – La solitudine di una regina, biografia scritta da Antonia Fraser, una rielaborazione “più pop” della vita della regina Maria Antonietta di Francia (Kirsten Dunst), e sul suo rapporto con la corte francese.

Anticipatoria del fenomeno Bridgerton, Sofia Coppola unisce elementi storici con influenze contemporanee, attraverso l’uso di costumi elaborati, set sontuosi, una colonna sonora moderna (le musiche sono di The Strokes, New Order, The Cure e Phoenix) e qualche easter egg, come la converse nel montage con la canzone I want candy

Il sontuoso lusso dei costumi di scena e del set fa entrare Maria Antonietta di diritto tra i cult del nuovo millennio. Ma l’estetica non è tutto ciò che rimane di questo lungometraggio, poiché viene osservata nuovamente l’adolescenza femminile e ritorna l’idea della gabbia dorata, concetto già introdotto da Sofia Coppola nel suo film d’esordio. 

Con questo film apparentemente stupido e che santifica una figura storica con tante ombre, si esplora l’umanità di una giovanissima donna, che vuole condividere affetto indistintamente (quando cerca di abbracciare la Contessa o inizia ad applaudire da sola), costretta nei panni delle frivole regole francesi che, prima la indirizzano sulla via dello sfarzo e poi la puniscono quando la regina non porta più acqua al loro mulino.

Con Maria Antonietta, Sofia Coppola mette in scena ciò che conosce e in cui è nata, rendendo il film quasi autobiografico: un gruppo elitario che vuole che la regina di Francia si comporti in un certo modo, senza mai darle modo davvero di farle conoscere cosa c’è fuori. Un mondo fatto di privilegi e altrettanti limiti, che rendono l’esperienza adolescenziale non comune e alla lunga insopportabile e frustrante.

La pellicola è disponibile per lo streaming su Prime Video.

Bling Ring, gli adolescenti di Calabasas secondo Sofia

« Alla fine è solo una questione di scelte sbagliate, degli amici che ti fai. »

È questa una delle tante giustificazioni Nicki Moore, pronunciata dalla sua inteprete Emma Watson: le cattive frequentazioni sono spesso il capo espiatorio di tanti comportamenti dissoluti, ma Sofia Coppola fa beffa di tale espressione mettendola in contrasto con le azioni dei protagonisti ed esplorando ancora una volta l’adolescenza.

A questo giro, peró, Sofia evita di umanizzare le protagoniste femminili. Considerato ciò, Bling Ring (The Bling Ring) è un bel cambio di rotta rispetto ai film precedenti: uscito nelle sale nel 2013, il film racconta la vera storia di un gruppo di adolescenti di Los Angeles che compie una serie di furti nelle case di celebrità famose, rubando gioielli, vestiti di lusso e altri oggetti di valore.

Primo film in digitale per la regista, Sofia Coppola prende in prestito immagini di rotocalchi televisivi e crea un montaggio suggestivo tra foto di repertorio e selfie. L’estetica dei film precedenti viene sostituita dall’indie sleaze del 2007 e dagli immaginari dei reality show di MTV, che espongono la celebrity culture degli anni 2000, l’ossessione dei giovani nel creare relazioni parasociali con i propri idoli, toccando da vicino le loro cose, fino a rubarle. La musica, che non è esattamente quella uscita al tempo dei fatti, come sempre commenta quello che stiamo vedendo e quello che provano i personaggi, come nella maggior parte delle pellicole di Sofia Coppola. 

La malinconia adolescenziale si scontra e perde con il voler essere accettati e il sentirsi parte di qualcosa di più grande, anche andando contro i propri principi. 

Questa volta, è il protagonista maschile Mark Hall (Israel Broussard) ad abbracciare i sentimenti di amicizia e fedeltá, che vorrebbe solo scappare da un passato fatto di ansia e insicurezze. 

Una soluzione gliela offre la valley girl Rebecca Ahn (Katie Chang), che incarna la rappresentazione cruda e satirica della società moderna, che rende qualsiasi “amicizia” solo un mezzo per i propri frivoli scopi.

Anche Nicki Moore, Sam Moore (Taissa Farmiga) e Chloe Tainer (Claire Julien) non sono altro che “lo stesso personaggio in diversi font”, le cui conseguenze delle loro azioni non hanno davvero un esito negativo.

Sì, sono andate in prigione, ma non è anche questo un modo per essere al centro dell’attenzione? 

Si potrebbe guardare a Bling Ring e alla sua Calabasas fatta di classi sociali all’ennesima gabbia dorata in cui Mark, Rebecca, Nicki, Sam e Chloe sono bloccatə poiché non conoscono altro, tanto che anche i loro genitori lavorano nel mondo dello spettacolo e li spingono a ricercare la fama e a scalare la vetta. 

Non sono contenti con quello che hanno e sono annoiati: però si cercano, fanno tante cose insieme e ne scoprono tante altre. Ed è forse questo uno degli elementi tipici dei ritratti adolescenziali (e non, basti vedere L’inganno) di Sofia Coppola: il fare gruppo e il conseguente il fascino della comitiva che permette esperienze che da solə non si sarebbero mai fatte. 

Sofia Coppola si distacca dal dipingere adolescenti incompresə in questo lungometraggio molto camp e che ormai è un cult per dipingere un periodo della storia pop non ancora così lontano.

Per vederlo, il film è disponibile per il noleggio su YouTube.