Come è noto, il cinema non è solo una questione di immagini, è soprattutto una questione di prosodia e metrica nel collegamento tra le immagini eseguito tramite il montaggio. La novità introdotta nel cinema da Pasolini all’inizio degli anni ’60 è stata quella di aver applicato al cinema la metrica della poesia al posto di quella della prosa fino ad allora impiegata nei film narrativi. A connotare lo stile del suo cinema, da lui chiamato “cinema di poesia”, sono l’impiego della macchina a mano, le riprese in esterni con luce naturale, il ricorso a lunghi piani sequenza e soprattutto un modo nuovo di utilizzare le giunte nel montaggio, un modo fondato sulla nozione del “ritmema”, quest’ultimo inteso come regolatore in funzione psicologica dei rapporti spazio-temporali tra i contenuti delle singole inquadrature.
Il risultato della riflessione estetica e formale di Pasolini esplode nei primi due film da lui girati come regista, Accattone e Mamma Roma, due esempi sublimi di un cinema mai visto prima dove ad essere poetici non sono i contenuti ma lo stile che rende tale anche una materia “bassa” e la eleva ad una dimensione sacrale (il giovane di Mamma Roma legato su un letto in prigione raffigurato come il Cristo morto del Mantegna). lmprontati al “cinema di poesia” restano anche i successivi La ricotta e Il vangelo secondo Matteo, entrambi “scandalosi” mentre la produzione successiva si apre a contaminazioni con gli stilemi della “nouvelle vague” e al ricorso all’apologo morale (Porcile, Teorema), per poi dedicarsi all’evocazione di una creaturalità rimossa dalla cultura cattolica-borghese e rintracciata nelle favole antiche nella “trilogia della vita” (Decameron, I racconti di Canterbury e I fiore delle Mille e una notte), dalla quale poi abiura per confrontarsi con il Male assoluto in quell’esempio di “cinema della crudeltà” che è Salò.
Insofferente dell’arte per pochi e di ogni forma di paternalismo e di intellettualismo, l’uomo Pasolini, primo nel vedere nel consumismo e nella sua alleata televisione la forma del fascismo moderno, ha fatto dell’amore disinteressato il motivo dominante della esistenza, anche a rischio della vita. Quanto al Pasolini regista, egli è stato sempre convinto che “ o spettatore,per l’autore, non è che un altro autore” e che lo spettatore “non è colui che non comprende, che si scandalizza, ma è colui che comprende, che simpatizza, che ama, che si appassiona: tale spettatore è altrettanto scandaloso che l’autore”. Profeta inascoltato a suo tempo, Pasolini ha lasciato un cinema poetico-critico fonte di ispirazione per molti autori successivi, un cinema che non serve né a trastullare né a indottrinare ma serve a condividere esperienze umane per una comune crescita morale. E in questo lascito artistico sta ancora l’attualità della sua opera da regista nelle sue diverse manifestazioni poetiche.
[…] d’Italia. Imperatori con il suo titolo strizza l’occhio alla celebre frase di Pier Paolo Pasolini “Io so ma non ho le prove“, quella con cui iniziava il suo articolo sul Corriere della […]
[…] il cuore di Lorenza. Collaborò con Vie Nuove, il settimanale del PCI dove divenne amica di Pier Paolo Pasolini. La sua ultima pubblicazione risale al 2014 con Sellerio. Si tratta de Diario Londinese in cui […]