Andrea Magnani, dopo il convincente esordio Easy, porta sullo schermo La lunga corsa, una fiaba ambientata dietro le sbarre, un percorso di crescita che il protagonista non vorrebbe intraprendere, ma l’inesorabile scorrere del tempo gli pone davanti.

Questa pellicola, dolce e delicata, rappresenta per tematica e stile una rarità all’interno del panorama delle produzioni italiane ed è presentata in concorso al Torino Film Festival.

Giacinto è nato in carcere da una coppia di criminali. Il padre, subito dopo il primo vagito del bimbo lo sfrutta per farsi strada verso la fuga. L’infante viene successivamente abbandonato e ricondotto in prigione, dove la madre detenuta lo vede come un inutile peso, a differenza del secondino burbero, ma di buon cuore Jack che si affeziona a lui decide di crescerlo.
Da adolescente Giacinto è costretto ad abbandonare le mura del carcere e trasferirsi tra quelle di in una casa d’accoglienza per orfani. Incapace di adattarsi al mondo, proverà ogni cosa per delinquere e tornare dal padre adottivo nel suo nido fatto di cemento e sbarre d’acciaio dove ad attenderlo c’è anche l’ergastolana Rocky, temuta da tutti ma che il ragazzo vede come una sorta di nonna-amica.
L’amicizia tra Giacinto e la detenuta lo porterà finalmente a liberarsi della sua gabbia mentale e letteralmente a correre verso la libertà.

Al suo secondo lungometraggio, Andrea Magnani ritrova un personaggio stralunato, malinconico e disadattato come era Isodoro di Easy, ma il percorso di Giacinto è quasi esattamente all’opposto: il primo deve viaggiare per ritrovare sé stesso, il secondo all’interno del carcere si sente al sicuro e fuori “non sa fare nulla”.

La lunga corsa conferma inoltre la volontà di Magnani di puntare l’obiettivo della macchina da presa sulla stranezza o quanto meno aticipità ed esaltarla senza scadere nel troppo assurdo.
Il pregio film è nei non detti e nell’avere elementi dosati al milligrammo che scatenano anche la fantasia dello spettatore, ad esempio la curiosità di scoprire perché Rocky fa paura persino al personale della galera non viene appagata, ma poco importa perché, con la scena dove la detenuta fuma una sigaretta in riva al mare (di chiarissima ispirazione alla Nouvelle Vague) c’è tutta l’umanità prigioniera del personaggio.

La lunga corsa è una stramberia che, cullata dalle note di Fabrizio Mancinelli, evoca Beckett e nel mostrare con lieve dolcezza i disagi del carcere in realtà severamente critica le prigioni che esistono all’esterno, nelle menti delle persone e nella società.