Diciannove ore. Soltanto diciannove ore della vita di tre giovani sono state sufficienti a fare la storia. Già, perché, di fatto, L’Odio, secondo lungometraggio del regista e attore Mathieu Kassowitz, vincitore del Premio alla Miglior Regia al Festival di Cannes 1995, si svolge proprio in questo breve lasso di tempo.
Diciannove ore decisive per la vita di tre ragazzi che vivono da tempo immemore nella banlieue parigina: Vinz (impersonato da Vincent Cassel, divenuto celebre proprio grazie alla presente pellicola) è di origini ebraiche ed è decisamente il più irrequieto tra i suoi amici. Egli è solito sfogare la sua rabbia repressa imitando spesso in modo compulsivo il suo idolo Robert De Niro in Taxi Driver. Hubert (Hubert Koundé) è un ragazzo di origini nordafricane che sogna di diventare pugile, ma che si sente spaesato nel momento in cui la sua palestra viene distrutta durante alcuni scontri con la polizia. Saïd (Saïd Taghmaoui), infine, è un giovane maghrebino che cerca di tirare a campare come può.
Le vicende dei tre protagonisti, dunque, prendono il via da un fatto di cronaca realmente accaduto, che ha visto la morte di un ragazzo in seguito al pestaggio da parte della polizia durante alcuni scontri. Se, dunque, di avvenimenti del genere se ne è parlato tanto e tanto negli ultimi anni, nel momento in cui L’Odio è uscito, ciò rappresentava quasi una “novità”, almeno dal punto di vista cinematografico. Non stupisce, dunque, il fatto che la pellicola abbia avuto una tale risonanza. Ma se, ancora oggi, a quasi trent’anni dalla sua realizzazione, il film è considerato un vero e proprio cult, il merito è anche della straordinaria maestria di Kassowitz nel mettere in scena la storia dei tre protagonisti in modo del tutto personale e innovativo, facendo tesoro di quanto realizzato in passato, ma cercando, al contempo, una propria strada e nuove, interessanti soluzioni.
Girato interamente in bianco e nero, L’Odio, dunque, ci accompagna per mano in un mondo, quello delle multietniche banlieue, di cui fino a poco tempo prima si sapeva veramente poco. La violenza regna sovrana. Il desiderio di vendetta anche. E mentre i più deboli non vengono mai tutelati come meriterebbero, ecco che la rabbia cresce. E si fa ogni ora più sorda.
Un estremo realismo (quello dei filmati di repertorio mostratici in apertura del film, in cui assistiamo a reali scontri con la polizia) si trasforma improvvisamente in scene fortemente surreali e oniriche (come quando solamente Vinz vede curiosamente una mucca aggirarsi per la strada). I campi lunghi ci mostrano la vita nelle banlieue, ma poi, ecco che primi e primissimi piani ci trasmettono tutte le sensazioni vissute dai tre giovani nel momento in cui si ritrovano a vagare di notte per il centro città. E mentre la vista di una pistola ci fa immediatamente presagire il peggio, spari e rumori fuori campo sanno sapientemente colpirci come un pugno allo stomaco.
L’Odio è, dunque, un film arrabbiato, impulsivo ed estremamente ragionato allo stesso tempo. L’immagine di un’epoca di cui, ancora oggi, purtroppo, molti conflitti non sono mai stati risolti. Conflitti generazionali compresi. Un lungometraggio estremamente maturo, nonostante la scarsa esperienza del regista dietro la macchina da presa, che guarda con affetto e riverenza alla storia del cinema (oltre al già citato Taxi Driver è impossibile non cogliere chiari riferimenti a Il Cacciatore di Michael Cimino o anche a Scarface di Brian De Palma), ma che non ha paura di dire la sua, lasciando definitivamente il segno nella storia del cinema stessa. E no, nell’affermare ciò, non stiamo affatto esagerando.