Dopo Suburra, serie ispirata all’omonimo film di Stefano Sollima (leggi la recensione), Netflix ci riprova con Rimetti a noi i nostri debiti, il suo primo lungometraggio italiano – prodotto da La Luna, Lotus Production una società di Leone Film Group con Rai Cinema – che sarà disponibile, in anteprima mondiale, da venerdì 4 maggio, prima di essere tradotto in 22 lingue.
Il film, diretto da Antonio Morabito e interpretato da Claudio Santamaria e Marco Giallini (di recente visto in Io sono Tempesta di Daniele Luchetti), è ambientato nella Roma che ben conosciamo, fatta di bellezza e difficoltà quotidiane, ma sopratutto in un’Italia colpita da una statica e impassibile crisi economica capace di azzerare possibilità o ambizioni lavorative.
Dopo aver perso il lavoro in una grande azienda, Guido (Claudio Santamaria) ha dovuto imparare a “campare”, accettando modesti e saltuari lavori che, se gli permettono a fatica di sopravvivere, di certo non lo aiutano a saldare i debiti che si ritrova sulle spalle.
Quando subisce un’aggressione commissionata dai suoi creditori, capisce di dover mettere da parte, ancora una volta, il suo orgoglio e lavorare per loro fino a quando il debito non sarà estinto.
È così che conosce Franco (Marco Giallini), impeccabile padre di famiglia, uomo di fede e scrupoloso esattore, che diventerà il suo mentore.
Rimetti a noi i nostri debiti gioca su un equilibrio precario, dovuto alla scelta di un regista al suo effettivo terzo film a soggetto e di due attori italiani tanto noti, quanto amati al grande pubblico, che rende il risultato finale scindibile fra le scelte registiche compiute e l’interpretazione dei due protagonisti.
In una rosa di attori italiani in grande crescita, Claudio Santamaria e Marco Giallini rappresentano oramai due certezze e due distinte tipologie di personaggio che qui trovano un ottimo terreno in cui esternare il proprio talento.
Non c’è, forse, fisico o volto migliore di Santamaria per portare sullo schermo un personaggio definito un “vecchio canotto sgonfio”, dal barista che ogni sera lo vede sedersi al solito angolo per bere d’un fiato il solito whiskey scacciapensieri, ma che proprio passando dalla parte del “nemico” ritrova determinazione e coraggio. In una significativa scena, lungo quel Tevere che qualche anno fa lo aveva visto diventare Jeeg Robot, basta un gioco di campo e controcampo per assistere alla comparsa di una fredda indifferenza negli occhi di un uomo comune, umiliato dalla vita e per questo pronto a prendersi un’amara rivincita sugli altri.
Il Franco di Marco Giallini non accetta debolezze: preciso, cinico, quasi sadico nel mettere in scena le fasi di metodi collaudati e (quasi) infallibili, che si differenziano per debitori furbi e per i semplici poveracci, si rivela anche un maestro attento, in grado di trasformare il più bonario dei discepoli in un instancabile ricercatore di ricchezze altrui.
Nonostante questa storia, legata al reale sia in linea con le passate opere di Antonio Morabito, si ha la sensazione sin dalle prime scene della mancanza di un’idea registica forte in grado di renderla effettivamente tangibile. La brutalità umana sfocia con parole, soprusi, violenze mentali e fisiche, ma ragioni, cause e conseguenze rimangono sempre sull’orlo della superficialità. La mancanza di profondità è compensata, per paradosso, dalla presenza di sequenze che risultano insolute ed inutili, come molti personaggi secondari, senza i quali la narrazione risulterebbe di eguale ed esigua intensità.
Accade di nuovo, purtroppo, che una produzione cinematografica destinata ad un pubblico “casalingo” perda l’occasione di dare nuovi stimoli e rimanga intrappolata in una visione artistica da pochi pollici.
Il debito di Netflix nei confronti di un pubblico più esigente resta ancora insoluto.
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