Da qualche decennio si può dire che non c’è film che non evochi a modo suo la psicoanalisi per applicarne la lezione a storie con personaggi complessati e disturbati.

Non è più soltanto Woody Allen a citare Freud nei suoi autoritratti, tipo Harry a pezzi, eseguiti con il suo inconfondibile umorismo ebraico, ma sono tanti i registi che rappresentano nevrosi e psicosi anche in film di genere come il thriller e l’horror. Si vede che “il buio della mente” (titolo di una esemplare opera di Claude Chabrol) interessa molto gli spettatori, come conferma anche il succedersi di rassegne dedicate ai rapporti tra il cinema e la psicoanalisi (ultima quella svoltasi a marzo al Palaexpo di Roma nell’ambito della pluriennale serie chiamata “Cinemente” organizzata dalla Società Psicoanalitica Italiana). Il successo di simili iniziative non deve sorprendere se si considera l’affinità ontologica tra il cinema e l’analisi del profondo freudiana, junghiana o lacaniana che essa sia. In una prospettiva storica è innegabile che il cinema e la psicoanalisi si sono attratti da subito, fin da quando sono nati quasi insieme. Il cinema ha aperto la porta dell’inconscio, dapprima in maniera indiretta (i mostri archetipici dell’inconscio evocati da Murnau in Nosferatu e le immagini della pulsione desiderante evocate dal surrealista Bunuel con i suoi sovversivi film Un chien andalou e L’age d’or) e dopo in maniera diretta con titoli divulgativi sull’argomento (da I misteri di un’anima, girato da Pabst con la consulenza di due allievi di Freud sul caso di un uomo afflitto da sogni uxoricidi, su su fino a Marnie di Hitchcock su un caso di cleptomania e al noir perturbato di Lynch Mulholland Drive). Cinema e psicanalisiLa psicoanalisi, da parte sua, non ha fatto e non fa altro che cercare di “mettere in sequenza” i frammenti caotici del “cinema interiore” dei pazienti psicotici nell’intento di rappresentare l’irrappresentabile, nel tentativo, per dirla con Lacan, di mettere in forma simbolica la forza informe della pulsione desiderante. In questa impresa è di grande aiuto la somiglianza tra i due linguaggi, infatti la psicoanalisi ama i simboli, il cinema ama i simboli, quindi il cinema ama la psicoanalisi. I simboli nel cinema eccedono il loro significato letterale, essi sono immagini pre-verbali, come quelle dei sogni, che attingono al repertorio arcaico delle figure dell’ “inconscio collettivo” analizzate da Jung e, in quanto tali, fungono da rappresentazione dell’inconscio. I simboli nell’arte, come dice Ricoeur, “danno a pensare” e questo vale a maggior ragione per il cinema, un’arte fatta di immagini simboliche fusione di mythos e logos che vengono prima del linguaggio verbale, immagini organizzate in racconto secondo quei processi di  “condensazione” e di “spostamento” che sono gli stessi che per Freud si attivano nella fase onirica.

   Il vecchio cinema analogico ha avuto i suoi problemi per rappresentare l’inconscio a causa della resistenza del mezzo tecnico foto-riproduttivo, quella resistenza contro cui combattè negli anni Venti un regista “animista” come Epstein. Oggi con il cinema digitale l’impresa è molto facilitata dal momento che melancholia1esso si serve di una tecnica che è “immateriale” come immateriali sono i sogni. I risultati già si vedono e sono film interamente psichici e cosmici come, tra i più recenti, Melancholia di Von Trier e Onirica di Majewski. Presto lo psicologismo tradizionale sparirà dagli schermi e al suo posto avremo soltanto o percorsi psicotici-onirici in soggettiva oppure anti-realistici action movie totalmente fantastici e ispirati ai miti arcaici universali. Comunque, in ogni film, classico o moderno che sia, piccoli lampi provenienti dall’inconscio riescono sempre a filtrare fuori, spesso in maniera involontaria. Questo avviene in maniera raffinata in molte opere autoriali alla Bergman o alla Lynch ma avviene anche in maniera selvaggia in film di genere come gli horror di un Fulci o di un Bava,tipo E tu vivrai nel terrore. L’Aldilà e Sei donne per l’assassino. Il “figurale” di cui parla Lyotard, definendolo un significante anarchico non ancora linguistico, abita da sempre il cinema assai più del figurativo. Soltanto i film in cui le cose sono irrimediabilmente quelle che sono costituiscono una colata di cemento sull’inconscio dello spettatore (come è sempre la televisione).