Claude Chabrol, il più amato tra gli ex-capofila della nouvelle vague, nell’arco di cinquant’anni di attività non ha mai deluso i suoi fedeli allineando con cadenza annuale opere che hanno mantenuto sempre più di quanto promettessero. Meno “personale” di Truffaut, meno “raffinato” di Rohmer e meno “rivoluzionario” di Godard, Chabrol è stato un narratore di razza cultore della geometria delle forme e dell’evidenza delle immagini rese sempre con una oggettività elegante capace però,nel pieno rispetto dello spettatore, di aprire baratri e dubbi attraverso un gioco morbido ma micidiale di rovesciamenti prospettici e di inversioni drammaturgiche.
Situazioni complesse in forma semplice, questo il credo di Chabrol che ha fatto di lui un maestro del cinema “classico-moderno”. Un cinema, il suo, mai toccato dalle periodiche oscillazioni del gusto pur nella coerenza di un discorso “morale” subito riconoscibile per i temi trattati e per lo stile adottato, a partire dal film d’esordio Le beau Serge del 1959 ( vero iniziatore della nouvelle vague) fino all’ultimo Bellamy ( presentato a Berlino nel 2009). In mezzo circa sessanta titoli, tutti variazioni del genere criminal story ambientati perlopiù nella provincia francese e con argomento i vizi segreti della classe borghese con le loro conseguenze funeste prodotte dall’ ”eccesso” in tutti i campi della vita privata e sociale.
Le trame “gialle” sono servite a Chabrol per sondare il buio delle menti umane e il labirinti dell’anima attraverso un cinema avvolgente segnato da improvvise ruptures, un cinema di intrighi psicologici alla Simenon realizzato con la perfidia di un Hitchcock e la freddezza di un Lang ( suoi modelli giovanili) sullo sfondo di ambienti provinciale visti al microscopio e divisi in tanti tasselli fino a comporre una “commedia umana” alla Balzac unificata da un’ottica personale tra materialista e giansenista. Lo” scambio di colpa “ , la “dismisura” e la presenza del “male radicale” sono stati i topoi narrativi ritornanti nella filmografia del regista inquadrati in solide strutture narrative aliene a ogni compiacimento autoriale. “ Un film che non ha una forma geometrica individuabile non è un film”, amava ripetere Chabrol e a questo principio è rimasto sempre fedele da Le beau Serge fino a Bellamy ( due opere simili per argomento e speculari nella costruzione basate entrambe sullo “scambio”) attraverso titoli come il semplice-complesso Le donne facili , il mèlo-thriller Il tagliagole , il sarcastico-disincantato Sterminate “Gruppo Zero” e il feroce-grottesco L’amico di famiglia ( e perfino. nei “divertimenti” polizieschi della giovanile serie commerciale di Il Tigre ).
E dentro queste costruzioni geometriche tante invenzioni visive e soluzioni tecniche di straordinaria bellezza ed efficacia (la struttura circolare in Le donne facili, la combinazione carrello più zoom nel finale di Stéphane, il racconto che gira due volte su se stesso in A doppia mandata, la scritta “senza fine” sull’ultima inquadratura di L’inferno, le dissolvenze” illuminanti” che punteggiano Il tagliagole).
Amante delle donne ( suoi sono i migliori ritratti femminili del cinema francese, dalla moglie di Stéphane, una moglie infedele interpretata da Stéphane Audran alle donne “disturbate” incarnate da Isabelle Huppert in Il buio nella mente, Violette Noziere, Un affare di donne) e della buona cucina ( in ogni suo film c’è almeno una scena rivelativa in cui i protagonisti sono colti nell’atto di pranzare), Chabrol cerca di capire i suoi personaggi prima di giudicarli e in questo segue un ideale di “medietas” che lo porta a denunciare da una parte la stupidità e dall’altra l’ebbrezza del potere, entrambe fattori di squilibrio e di disarmonia. Con i suoi film Claude Chabrol, come un moderno Montaigne, ci ha insegnato senza mai annoiare, con ironia ed autoironia, ad essere un po’ più saggi e tolleranti. E questo, in un cinema spesso troppo serioso e predicatorio, è stato il più bel regalo che ci potesse fare nella sua lunga e fruttuosa carriera di cineasta.
Angelo Moscariello