Nel cinema i freaks sono un tipo particolare di mostri, da non confondere con quelli della tradizione horror quali i vampiri mutanti e i killer mascherati. I freaks non sono personaggi di fantasia ma sono quelli che nella realtà vengono chiamati “scherzi di natura” a causa di un qualche loro difetto fisico che può provocare ribrezzo alla vista anche se essi non hanno nessuna intenzione di spaventare il prossimo. Sono creature rese deformi da malformazioni di vario tipo che nell’antichità venivano definiti “prodigi” annunciatori di eventi straordinari. Uno dei primi freaks che troviamo nel cinema horror è il campanaro Quasimodo protagonista di Il gobbo di Notre Dame girato nel 1923 da Wallace Wuorsley. Umiliato dagli abitanti di Parigi, l’individuo vive segregato dentro la cattedrale ed è costretto a subire i supplizi fisici e psichici di un malvagio prete che finirà con il venire aggredito dalla sua vittima esasperata. Il film suscita nello spettatore un grande senso di pietà verso la deforme creatura e attiva l’identificazione con lui quando egli giunge a uccidere per salvare la bella popolana Esmeralda di cui è innamorato senza essere ricambiato.
Fuori di ogni mitologia romantica è il ritratto dei freaks fatto in chiave clinica-fenomenologica nel 1932 da Tod Browning nel suo Freaks. Nel film tutte le creature rappresentate non sono attori truccati ma veri fenomeni da baraccone reclutati dal regista in vari circhi americani. Attraverso la vicenda della perfida trapezista Cleopatra che sposa il nano Hans con l’intento di avvelenarlo dopo le nozze per accaparrarsi l’eredità, il film offre uno spaccato del mondo circense con i suoi codici di comportamento. Ne emerge un turbinio di sentimenti che fa di questo popolo di creature difformi una umanità parallela capace delle stesse abiezioni ma anche degli stessi gesti di nobiltà d’animo che connotano gli uomini cosiddetti normali. Uno dei personaggi più patetici è l’uomo affetto da microcefalia, al quale si affianca l’”uomo a metà”,entrambi dotati di un loro mondo affettivo interiore che emerge nei rapporti con i compagni. L’unico vero mostro artificiale finisce con l’essere la bella Cleopatra che alla fine per punizione viene trasformata in una grottesca donna-gallina. Un’infinita tenerezza suscita anche il protagonista di Elephant man, film girato da David Lynch nel 1980 sul caso, realmente esistito nella Londra vittoriana, di un giovane affetto dalla sindrome di Proteo. Il regista priva il suo freak di ogni componente aggressiva e gli conferisce una sensibilità fanciullesca e struggente attraverso notazioni di grande spessore poetico. Deriso da tutti, l’uomo-elefante sopporta con dignità il suo martirio e con la sua silenziosa sofferenza accusa i popolani ignoranti e malvagi e fa insorgere anche qualche sospetto di opportunismo nella decisione di curarlo adottata dall’aristocratico dottor Treves. Non a caso, a salvarlo in modo definitivo saranno proprio gli autentici freaks di un circo che sembrano usciti dalla pellicola di Browning.
Nella galleria dei difformi va ascritto anche il giovane protagonista del film di Tim Burton Edward, mani di forbice. Costui, costruito in laboratorio da uno scienziato e dotato di un paio di forbicioni al posto delle mani, viene accolto dalla locale comunità dopo la morte del suo creatore, ma ben presto l’iniziale carità si trasforma in una malevola curiosità che finisce con diventare una ostilità dichiarata tanto da indurre Edward a rinchiudersi per sempre nel castello dove era nato. La storia è raccontata con un lungo flash-back dalla ragazza ormai diventata vecchia che unica aveva scelto di ricambiare il suo amore, ma invano.
Il film è pervaso da una poesia magica che riflette il gusto di struggente malinconia tipico del regista e scorre leggero in un tripudio d’invenzioni visive e scenografiche. Va osservato che una sorta di analoga dolente malinconia la troviamo applicata anche ai ritratti di vampiri in molti horror recenti, come ad esempio in Trenta giorni di buio dove il regista Slade adotta la visione “relativista” introdotta da Matheson nel romanzo Io sono leggenda.
La figura del freak può comparire, comunque, anche in opere tra il grottesco e il realistico che, pur non appartenendo algenere horror o fantasy, finiscono con il provocare un orrore morale profondo in chi le guarda. Un titolo per tutti di questatipologia è La donna scimmia girato nel 1964 da Marco Ferreri, cronaca del calvario di una donna barbuta che uno spregevole individuo circuisce con promesse d’amore per poi esibirla in pubblico come fenomeno da baraccone e trattarla peggio di un animale.