Al doppiaggio del primo corto girato con Godard, Charlotte et son Jules, Jean Paul Belmondo arrivò in ritardo, costringendo il regista a prestare lui stesso la voce al protagonista del film. Forse già da questo aneddoto si comprende l’atteggiamento (e il fascino) irriverente e sbruffone di Bebel, che riceverà al prossimo Festival di Venezia il Leone d’Oro alla carriera.

belmondo-2Il premio è un segno forte, dopo la Palma d’Oro d’onore a Jean Pierre Leaud all’ultimo Cannes, della volontà (forse un po’ tardiva) di premiare gli ultimi veri divi europei, provenienti da quella Nouvelle Vague che nel suo rinnovamento polemico del cinema francese (e non solo), segnò anche una svolta nella storia del divismo cinematografico. Belmondo ne rappresenta l’anima più citazionista, l’espressione attoriale dell’omaggio e insieme della decostruzione dei generi e del linguaggio cinematografico operata da Godard in A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro).

Infatti, se nel film Bebel ricorda nelle movenze e nei gesti i grandi “duri” Humphrey Bogart e Jean Gabin (con il quale reciterà due anni dopo in Quando torna l’inverno), è anche l’incarnazione della crisi di quell’ideale, mera imitazione di un mito impossibile da raggiungere e ormai inutilizzabile. Nonostante avesse già recitato per Carnè (Peccatori in blue jeans, 1958) e Chabrol (A doppia mandata, 1959) è la collaborazione con Godard a dargli la fama e a disegnarne in maniera indelebile il tipo dell’avventuriero sopra le righe, sempre con la sigaretta penzoloni tra le labbra carnose.

Il sodalizio continuerà per altri due film, La donna è donna (1961) e Il bandito delle undici (1965) che segnerà la fine del primo itinerario cinematografico di Godard e la conclusione dell’esperienza comune dei “Giovani Turchi” del cinema francese.

Ormai lo statuto divistico di Belmondo è consolidato: nei soli anni ’60 recita in una quarantina di film, principalmente in Francia ma anche in Italia, dove interpreta lo studente timido e idealista innamorato della Loren in La Ciociara (1960) di De Sica, recitando anche in Lettere di una novizia di Lattuada (sempre del ’60), La Viaccia (1961) di Bolognini e lo sfortunato Mare Matto (1963) di Renato Castellani.

È in patria però che Belmondo dà il meglio di se, consolidando nell’immaginario l’andatura strafottente, la smorfia ironica e seducente di quel volto segnato da pugile pestato. Il suo naso schiacciato è infatti frutto del suo passato da boxeur o, più probabilmente, di una rissa tra bande di liceali al Bois de Boulogne. Tanti i registi che l’hanno diretto: da ricordare i tre film fatti con Jean Pierre Melville, per il quale sarà il rigoroso sacerdote di Léon Morin, prete (1961) e poi di nuovo protagonista in Lo spione (1962) e Lo sciacallo (1963) da un romanzo di Simenon. Dopo Godard, anche l’altro grande nume tutelare della Nouvelle Vauge, Francois Truffaut, lo vuole in suo film, affidandogli il ruolo, insolito per Belmondo, dell’ingenuo e ossessionato innamorato di Catherine Deneuve in La mia droga si chiama Julie (1969).belmondo-3

A partire da Borsalino (1970), recitato accanto al “rivale” Alain Delon, Belmondo prediligerà ruoli più commerciali in film rocamboleschi di buon livello, girati sempre senza controfigura e diretti spesso dagli stessi registi, tra cui Henri Verneuil, Philippe de Broca, Georges Lautners.

La collaborazione con Claude Lelouche (tre film tra il 1969 e il 1995) lo porterà a vincere nel 1989 il premio Cesar per il sopravvalutato Una vita non basta. E poi il teatro, sempre praticato e mai dimenticato, come ci si aspetta da un allievo, pur se indisciplinato, dell’Accademia d’arte drammatica di Parigi. La sua esperienza sulle scene verrà coronata nel 1990 da una trionfale edizione del Cyrano di Rostand.

“Dinoccolato perdigiorno”, “simpatica canaglia”, “imprevedibile guascone”: sono questi gli appellativi che ricorrono tra le pagine dei biografi che hanno cercato di spiegare Jean Paul Belmondo, impegnati nel difficile tentativo di descrivere a parole la sua immagine divistica a metà strada tra finzione cinematografica e verità della vita.

Un mito, quello di Bebel, che è rimasto, pur nei suoi mutamenti, sempre legato al protagonista del primo film di Godard, emblema dello stato d’animo del cinema e del mondo in quei burrascosi, ma sempre rimpianti, anni ’60.