Spesso, anzi, spessissimo capita di imbattersi in lungometraggi o cortometraggi a carattere metacinematografico. Perché, di fatto, il metacinema è inconsciamente un modo dei cineasti di tutto il mondo di dichiarare il proprio amore alla settima arte.
Allo stesso modo, girare un prodotto metacinematografico presuppone anche una riflessione sul fare cinema, sul mestiere del regista, dell’attore e sui vari processi di realizzazione, con tanto di intoppi e imprevisti che di consueto accadono durante la vita sui set.
E se, di fatto – al di là della grande passione che molti del mestiere provano nei confronti della settima arte, fare cinema – oggi come oggi, non è affatto semplice (vuoi per chiari problemi economici, vuoi anche per la difficoltà nell’ottenere una certa visibilità), il parlare di cinema o il rappresentare la creazione di un prodotto cinematografico restano comunque attività che danno tanto e tanto piacere a chi ha fatto del grande schermo la propria ragione di vita o a chi, semplicemente, si rapporta a esso in qualità di puro amatore.
Un esempio? Mostra del Cinema di Venezia, estate 2013. In occasione della settantesima edizione del festival, la Biennale ha chiesto a settanta registi di tutto il mondo di realizzare un cortometraggio a tema libero della durata di circa un minuto, in modo da poter realizzare un prodotto collettivo – uscito poi con il titolo Venezia 70 Future reloaded – atto a celebrare l’anniversario dell’importante manifestazione cinematografica. Bene, proprio dato il fatto che ogni regista poteva scegliere liberamente quale tema trattare, è interessante notare come gran parte dei corti presenti fossero di natura metacinematografica. Contenti i registi, ancor più contento il pubblico, da sempre affascinato e incuriosito da tutti quei meccanismi che portano pian piano alla realizzazione di immagini proiettate sullo schermo.
8 ½ e Il Disprezzo: i primi esempi di metacinema
A questo punto, una domanda sorge spontanea: è sempre esistito il metacinema? O, meglio ancora, quand’è che si è deciso di iniziare a raccontare per immagini i vari processi di realizzazione di un film? Se facciamo un salto con la mente ai gloriosi anni Sessanta, ecco che subito notiamo come due veri e propri capolavori della storia del cinema presentino già dei caratteri metacinematografici. Stiamo parlando, nello specifico, di due film realizzati entrambi nel 1963. Il primo dei due è 8 ½ del grande Federico Fellini, il secondo è Il Disprezzo, del maestro Jean-Luc Godard.
Se il primo lungometraggio è da considerarsi uno dei film più personali e fortemente autobiografici del regista di Rimini, particolarmente interessante risulta la riflessione sul mestiere del regista, sulle sue crisi personali e su quanto il suo passato riesca a influenzare i suoi processi creativi (il tutto, ovviamente, messo in scena secondo la poetica felliniana, con tanto di importante componente onirica al proprio interno).
Per quanto riguarda Il Disprezzo, invece, c’è da fare una premessa: tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, questo pregiatissimo lavoro di Godard ha avuto, almeno in Italia, una vita non facile. Di fatto, il film si distingue per le profonde riflessioni sul cinema (con tanto di breve apparizione del grandissimo Fritz Lang), ma a causa della censura e dei numerosi tagli applicati all’epoca da Carlo Ponti nella versione distribuita in Italia, un capolavoro del genere ha perso gran parte del proprio potenziale.
Effetto Notte: il film metacinematografico per eccellenza
Tornando al discorso sul metacinema e a quando lo stesso abbia iniziato a diffondersi nel mondo della settima arte, 8 ½ e Il Disprezzo sono rari esempi di film metacinematografici realizzati negli anni Sessanta.
Se, tuttavia, pensiamo al prodotto metacinematografico per eccellenza, dobbiamo fare un salto nel tempo di ben dieci anni e arrivare fino al 1973, anno in cui François Truffaut ha realizzato il suo Effetto Notte, ambientato durante le settimane di lavorazione di un film e chiamato così per indicare un particolare procedimento secondo cui vengono girate scene notturne di giorno, mettendo un particolare filtro sull’obiettivo della macchina da presa. Ecco, Effetto Notte è a tutti gli effetti (perdonate il gioco di parole) il film metacinematografico per eccellenza, dove, con una giusta dose di suspense e di umorismo (e con tanti e tanti omaggi al cinema del passato) viene passo passo raccontata la vita sul set in ogni suo più variegato aspetto. In poche parole, un modo del tutto personale e più e più volte ripreso che ha usato Truffaut per dichiarare il proprio amore al mondo del cinema.
L’era del postmoderno: il metacinema diretto e senza filtri
Eppure, il boom dei film cinematografici doveva ancora arrivare, anche se non bisognava attendere ancora molto. Già, perché, di fatto, da lì a pochi anni (e, nello specifico, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta) si sarebbe entrati in una nuova fase della storia del cinema, ossia nella cosiddetta era del postmoderno. Cosa presuppone ciò? Semplice (o quasi): nell’era del postmoderno tutto è più “esplicito”, non v’è più molto di non detto e allo spettatore viene mostrato il tutto senza filtro alcuno (vuoi scene di violenza, dialoghi molto meno criptici, particolari effetti speciali o anche semplicemente immagini di nudo), per effetti visivi sempre più simili al vero grazie anche a numerosi progressi avvenuti in ambito tecnico. L’atto del vedere, dunque, prende sempre più coscienza di sé. E spesso e volentieri diventa il protagonista assoluto. Se, dunque, ripensiamo – ad esempio – al controverso (ma estremamente raffinato e complesso) Antichrist – diretto da quel geniaccio folle di Lars von Trier nel 2009 – e, nello specifico, al suo memorabile prologo, ecco che – pur non essendoci alcun elemento metacinematografico “esplicito”, l’oblò della lavatrice ci sembra un chiaro riferimento all’obiettivo della macchina da presa. Così come il bambino che, a un certo punto, guarda in macchina, sfondando la cosiddetta quarta parete. L’atto del vedere e i numerosi rimandi al processo di creazione cinematografica sono al giorno d’oggi, dunque, assai più frequenti di quando si possa pensare.
E ora, in conclusione di questa riflessione, giusto per rendere meglio l’idea di come sia cambiato il modo di fare cinema e di quanto il metacinema sia presente nei prodotti di oggi, torniamo brevemente a Venezia 70. All’interno del sopracitato progetto collettivo, particolarmente degno di nota è il cortometraggio girato dal compianto Abbas Kiarostami, il quale, nel voler rendere omaggio al cinema e, nello specifico, alla storia del cinema stessa, ha dato vita a una nuova versione del celebre L’Arroseur arrosé dei fratelli Lumière (1895). Il cortometraggio originale stava a rappresentare già di per sé una rarità all’interno della vasta produzione dei fratelli di Lione, in quanto, a differenza della maggior parte dei loro lavori (che tendenzialmente vedevano un approccio registico prettamente documentaristico), vedeva una messa in scena costruita per l’occasione, durante la quale un uomo, intento a innaffiare il prato con una pompa, diventava improvvisamente vittima di uno scherzo da parte di suo figlio che, mettendo il piede sulla pompa, aveva fatto in modo di bloccare l’acqua per poi farla uscire di nuovo di colpo, in faccia a suo padre. Ora, questa stessa identica scena è stata girata anche da Kiarostami nel suo cortometraggio. In versione metacinematografica e postmoderna, s’intende. E se, a suo tempo, la macchina da presa dei Lumière si era limitata a registrare, immobile, il siparietto, ecco che nel corto di Kiarostami sentiamo, all’inizio, la voce di un bambino che, prima di gridare:”Azione”, dà brevi indicazioni ai due attori. E, per tutta la durata del corto, sono le risate del giovane regista a doppiare quasi tutta la scena, con tanto di inquadrature che ci mostrano il bimbo dietro la telecamera. Un grande omaggio alla storia del cinema e al cinema stesso, dunque, per un’ottima e tenerissima versione postmoderna di un classico, in cui tutto è più esplicito, ma anche carico di significato. E lo sguardo limpido di un bambino, si sa, è sempre in grado di dar vita a un prodotto appassionato e sincero.
L’esigenza, dunque, di urlare al mondo intero quanto ci piaccia il cinema, realizzando lavori metacinematografici, si è fatta, nel corso degli anni, sempre più urgente. Segno che un amore così grande che lega i cineasti e gli spettatori al mondo della settima arte non potrà davvero mai finire. Nemmeno dopo un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo oggi.