In molti hanno storto il naso davanti alla vittoria del Leone d’Oro alla 77° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia di Nomadland, seconda regia della cinese di nascita, ma statunitense d’adozione Chloé Zhao.
Se, infatti, da un lato, il tema trattato appare alquanto interessante, ecco che una non sempre azzeccata gestione della messa in scena e dei vari risvolti narrativi ha reso questo importante lungometraggio che guarda con lungimiranza all’Oscar decisamente problematico. Eppure, a ben guardare, le carte in regole ci sono tutte per un (futuro) successo di pubblico: in primo luogo, v’è la periferia americana, qui considerata alla stregua di un vero e proprio protagonista; in secondo luogo, abbiamo il tema – raramente trattato – della vita dei nomadi contemporanei con tutte le sue inevitabili difficoltà; e, infine, c’è lei, una grandissima Frances McDormand che regge sulle sue spalle praticamente l’intero film e che per questa sua performance potrebbe addirittura aspirare a un terzo Premio Oscar.
A lei, dunque, il compito di vestire i panni di Fern, una donna di mezza età rimasta vedova da diversi anni, la quale – in seguito alla chiusura della fabbrica per cui lavorava – si ritrova a vivere all’interno di una roulotte nelle terre sperdute del Nevada. A incrociare il suo percorso, una serie di personaggi che come lei hanno optato per una vita senza fissa dimora, ognuno dei quali riesce a trovare dei fattori positivi all’interno di questa insolita esistenza.
Una storia decisamente interessante, questa messa in scena da Chloé Zhao. Su questo non v’è dubbio. Eppure, dopo una prima parte complessivamente ben gestita, in cui v’è un giusto equilibrio tra interiorità della protagonista, interazioni con l’esterno e necessaria attenzione al paesaggio, ecco che, pian piano, l’intero lavoro inizia pericolosamente a girare a vuoto, concentrandosi quasi esclusivamente sul personaggio di Fern e diventando sempre più stanco nel suo andamento narrativo, sempre più prevedibile nei suoi eccessivamente deboli risvolti narrativi.
Vi sono molti set up – pay off, in Nomadland, che vengono inizialmente tirati in ballo per poi essere lasciati in sospeso senza soluzione alcuna. Un esempio lampante, in tal caso, è la difficoltà di Fern a cambiare una gomma, che tanto prometterebbe in situazioni al limite del pericolo in cui la stessa potrebbe trovarsi, ma che, di fatto, non ha alcuna rilevanza all’interno della storia stessa.
E se, al contempo, man mano che ci si avvicina al finale si ha l’impressione che la regista fatichi a trovare una conclusione accettabile per questo suo lavoro, ecco che – soprattutto per quanto riguarda l’ultima mezz’ora – di conclusioni ne troviamo, ahimé, tante e tante. In ogni singola scena, infatti, abbiamo l’impressione che il lungometraggio stia volgendo al termine. Ma così, purtroppo, non accade. E se il totale di un’enorme pianura che si perde a vista d’occhio – mentre la protagonista, piccola piccola sullo schermo, esce lentamente dal campo dando le spalle alla macchina da presa – sembrerebbe una chiusura più che azzeccata, ecco che un’ultima, ridondante inquadratura sta a far perdere ulteriormente di mordente l’intero lavoro.
Un lavoro che ha visto le sue numerose potenzialità mal sfruttate e che, alla fine dei giochi, può puntare soltanto sulla bravura della McDormand e sulla risonanza delle major che l’hanno prodotto. Peccato.
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