Dal 2006 al 2016 uno sguardo d’insieme sulla filmografia di Pablo Larraín, vincitore del Premio per il Miglior film (Tony Manero) al Torino Film Festival nel 2008, Orso d’argento (Il club) al Festival di Berlino nel 2015 e presidente di giuria al TFF35.

Quella della dittatura di Pinochet è una storia di violenza e paura. Una parabola governativa che ha inghiottito quasi un ventennio di storia cilena segnandone indelebilmente la memoria. In quest’epoca così controversa, che ha precipitato in un turbine oscuro la presidenza di Allende, il golpe del ’73 e l’infiltrazione (politica e culturale) statunitense, Pablo Larraín è soltanto il rampollo di una potente famiglia di conservatori vicina al regime. Troppo giovane per aver vissuto direttamente la dittatura, la recepisce come narrazione e disagio interiore finché, anni dopo, il ricordo di quelle vicende traumatiche lo spinge a rileggere il passato dietro una macchina da presa. Nel suo cinema sono ancora impresse le stigmate che il vecchio generale ha trasmesso a un popolo faticosamente tornato in libertà, ma Larraín evita l’approccio diretto alla Storia: preferisce filtrarla attraverso prospettive inedite, personaggi obliqui, punti di vista stranianti; non si limita a illustrare i fatti documentati, ma concepisce un’immagine della dittatura, della democrazia, della morale cattolica, del genio poetico, della comunicazione mediatica, attraverso il potere trasfigurante della finzione.

Nel saggio Sensibilità e potere. Il cinema di Pablo Larraín (Luigi Pellegrini, 2017) Massimiliano Coviello e Francesco Zucconi individuano nella sua filmografia un sottile filo rosso, una partitura teorica di fondo, che abbraccia tanto la “trilogia della dittatura” (Tony Manero, Post Mortem, No – I giorni dell’arcobaleno) quanto gli antibiopic dedicati a Neruda e Jacqueline Kennedy. Coniugando abilmente l’approccio empirico (dalle soggettive libere indirette al montaggio intermediale dei documenti d’archivio) all’indagine estetica e sociologica (frequenti i riferimenti a Deleuze, Foucault, Ricœur), i due autori costruiscono attorno ai nuclei tematici di questo corpus – il potere, inteso come apparato di disciplina e controllo, e la sensibilità, come analitica della forza dell’immagine e della sua rappresentazione – l’architettura stratificata, carica di rimandi interni, che soggiace ai sette lungometraggi del regista cileno. Dopo il tiepido esordio con Fuga, Larraín si impone all’attenzione internazionale con esistenze sopite in un individualismo disperato, antieroi desensibilizzati che tentano invano di “mantenere” la dittatura fuoricampo aprendosi varchi di evasione (regressione) dal quotidiano. Se essere il compagno di Nancy Puelma è l’unico desiderio di Mario, essere Tony Manero è l’ossessione di Raúl. Poco importa che per sopravvivere debbano agitarsi in modo caricaturale e grottesco su una pista da ballo o assistere con una maschera di imperturbabilità all’autopsia di Allende sul lettino di un obitorio. La loro passività è il sintomo di una società in decomposizione che soltanto col Plebiscito dell’88 rialzerà la testa. Ma nelle mani dei pubblicitari René e Lucho la campagna per il “No” – no alla povertà, all’esilio e alle torture – si trasforma ben presto in un’astuta guerriglia per immagini che occhieggia al generico ottimismo di un Cile meraviglioso, festoso e colorato, narcotizzando il passato traumatico in un’utopia consumistica degenerata.

Se ne Il club l’onda lunga del regime si insinua ancora nelle coscienze dei quattro preti peccatori esiliati nel buen ritiro di La Boca, riattivando la frattura macabra tra vittime e carnefici e la gravità del rimosso storico di un Paese che non riesce a trovare pace, con Neruda Larraín affronta i traumi del Cile ricorrendo per la prima volta a un eroe con poche ombre (apparentemente) nella sua storia. Anima e voce dello spirito identitario cileno, Pablo Neruda accompagna con la sua poesia di ribellione mai connivente col potere le vicende di un popolo glorioso e insieme macchiato dall’infamia. Ma è anche un “falsario”, che ama riavvolgere continuamente la propria vita per immagini, depistare i suoi inseguitori e camuffarsi nei panni di fittizi alter ego per poi riemergere e tornare a nascondersi. Chi non si sottrae, invece, all’occhio inquisitore della macchina da presa è la first lady Jackie Kennedy (Jackie), che all’indomani dell’assassinio del consorte indossa il lutto sul proprio volto e lo espone come un’interfaccia mediatica, un’icona pop, in grado di produrre un effetto performativo su quell’America che aveva rappresentato l’ossessione indiretta della trilogia. Su quel viso Larraín ha inscritto la deriva capitalistica e commerciale degli Stati Uniti e, di nuovo, riannodato il legame col destino travagliato della propria nazione.