Considerati da buona parte di pubblico e critica come la rivelazione degli ultimi anni all’interno del panorama cinematografico italiano. Premiati a Berlino nel 2020 per il loro secondo lungometraggio. Tra i grandi nomi attesi in questa 78° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Sono loro: i fratelli (gemelli) Fabio e Damiano D’Innocenzo, che in questa Venezia78 concorrono per il tanto ambito Leone d’Oro con America Latina, il loro terzo lungometraggio.
Una storia singolare e un’ascesa a dir poco fulminante, la loro. Dopo una gavetta come sceneggiatori, infatti, già nel 2018 avevano piacevolmente colpito con il loro film d’esordio La Terra dell’Abbastanza. Da quel momento in avanti, la loro carriera è stata tutta in salita. Grandi aspettative, dunque, ha sollevato fin da subito il loro America Latina (tranne, ovviamente, per chi non era rimasto entusiasta dell’osannato Favolacce, il loro precedente lungometraggio). Anche questa volta, dunque, al centro del discorso viene messa una sottile e controversa realtà famigliare nella periferia laziale. Anche questa volta una torbida verità sta per essere portata allo scoperto.
Massimo (impersonato da Elio Germano) è uno stimato dentista che abita nella periferia di Latina insieme alla sua bella famiglia, composta da sua moglie Alessandra e dalle sue due figlie Laura e Ilenia. La loro sembra una situazione a dir poco idilliaca. Tutto sembra procedere per i meglio, fin quando l’uomo non scoprirà nella cantina della sua grande villa una bambina imbavagliata e legata a un pilastro. Come può essere spiegato tale assurdo e inaspettato evento?

La realtà non è mai quello che sembra. E, soprattutto, la percezione di ciò che noi quotidianamente viviamo può essere, in realtà, totalmente distorta. Questo ci fanno capire i fratelli D’Innocenzo in questa loro ultima fatica. Tutto potenzialmente interessante, senza dubbio. Il problema, però, è come ciò viene messo in scena.
Elio Germano è un bravo interprete (ma di questo abbiamo avuto modo di accorgerci già da diverso tempo a questa parte). E nel mettere in scena i suoi tormenti interiori, la sua paura, il suo inevitabile percorso verso la follia i due registi hanno fatto affidamento principalmente su di lui. Ma può un attore solo salvare un intero film? Purtroppo no.

America Latina, infatti, colpisce innanzitutto per la propria autoreferenzialità.
Autoreferenzialità che si traduce in momenti volutamente artefatti, talmente “perfetti” da voler suggerire ben altro (ma, diciamoci la verità, quante altre volte abbiamo visto al cinema situazioni del genere?), scene di “ordinaria follia” virate pericolosamente al rosso e figure femminili eteree e meravigliosamente innocenti, che sembrerebbero voler ricordare quasi Le tre Grazie di Sandro Botticelli. Il tutto accompagnato da una sceneggiatura traballante che dice tutto e allo stesso tempo niente e che si avvale di tanti piccoli elementi e twist presi direttamente da grandi classici del passato.
La periferia, pericolose dinamiche famigliari, la pazzia e la perdita della memoria fanno, dunque, da attori principali. Il problema è che, in questo caso, combinati tutti insieme questi elementi stanno a mettere in piedi un lungometraggio visivamente curatissimo, ma anche sostanzialmente privo di sostanza (e di idee originali). Un film che vuole a tutti i costi stupire, sconvolgere e disorientare lo spettatore. E che preso da queste sue smanie di grandezza si perde inevitabilmente per strada. Ed ecco che ripensiamo immediatamente a La Terra dell’Abbastanza, realizzato appena tre anni fa e dove di tale presunzione non c’era apparentemente traccia. Ma, si sa, il successo fulmineo, a volte, porta anche a questo. Purtroppo.
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