Dopo averlo atteso come film d’apertura all’80ª Mostra del cinema di Venezia (mai concretizzatosi causa sciopero del sindacato degli attori), finalmente Luca Guadagnino entra in campo e si prepara alla battuta con il suo nuovo Challengers – in uscita il 24 aprile, fortunato periodo per un’Italia che ha improvvisamente scoperto la passione per il tennis grazie a Jannik Sinner.
Il regista più glamour e cool del panorama contemporaneo (basti citare come, in un certo qual modo, abbia reso tale anche il cannibale di Chalamet in Bones and All), completa il dittico delle giovani stelle hollywoodiane più amate porgendo lo scettro del film alla divina Zendaya.
Ace sporco per Guadagnino.
Challengers cerca di spiazzare fin dal primo istante, inquadrando i protagonisti – Art (un Mike Faist con poche sfumature) e il ribelle Patrick (Josh O’Connor che, invece, dimostra grandi abilità recitative nella costruzione di un personaggio diametralmente differente al modello già interpretato in The Crown o ne La chimera) – affaticati durante la finale di un torneo minore che avrebbe consentito al vincitore di accedere alle qualificazioni per il circuito professionistico.
Quella che dovrebbe essere una partita di relativa importanza (i due sono a fine carriera) viene giocata allo strenuo delle forze perché a separarli non è tanto la rete, quanto la presenza ingombrante di Tashi Duncan (Zendaya), ex promessa del tennis mondiale che, ritiratasi per un infortunio, è allenatrice e moglie di Art.
Di qui, attraverso salti temporali, si metterà a fuoco un triangolo amoroso (e di competizione sportiva) che, da un fugace momento di bilanciamento, procede verso continui squilibri e controbilanciamenti. Tale incedere, giocando con le aspettative del pubblico, riesce a volte a sorprenderlo in un crescendo tensivo.
Set 1-0.
La componente erotica prorompe in Challengers (se non addirittura dalla locandina) fin dal primo frame, sessualizzando gli oggetti dalla ricorrente forma fallica, ma soprattutto attraverso l’insistenza sui corpi degli atleti, spesso madidi di un sudore libidinoso sottolineato persino da un attento comparto sonoro.
La carica energica e cinetica dei corpi atletici, anche nudi, rimanda così a un certo omoerotismo la cui tradizione (pure visiva) risale ai giochi sportivi dell’antica Grecia. In questa atmosfera umida e tempestosa non è tanto l’amore, quanto la passione che lega i tre protagonisti in meccanismi di potere propri di un certo gusto queer per il sadomasochismo (sempre presente in Guadagnino e più esplicitamente citato in Bones and All).
Matchpoint!
Il personaggio interpretato da Zendaya, sia per la sua scrittura, sia per la soverchiante intensità recitativa, è il centro gravitazionale della narrazione: sempre inquadrata non tanto tra i due, quanto piuttosto a separarli, è da lei e verso di lei che si dipanano gli sguardi (libidinosi o assertivi) seguiti e percorsi dalla macchina da presa come palle da tennis che rimbalzano da un campo all’altro.
In Challengers, infatti, è Tashi la protagonista proattiva, la vera atleta, la dominatrice, mentre i due uomini, quando non gigioneggiano, crollano nelle incertezze, in un ennesimo ribaltamento e dissacrazione di certi modelli di mascolinità.
Nel campo da tennis le dinamiche, specchiando quelle passionali, vengono messe in scena attraverso una regia ossessivamente alla ricerca del preziosismo visivo, che gioca con le geometrie degli stadi, con le potenzialità visuali dello sport e che costruisce scene dallo stile del videoclip su sonorità dal sapore dance anni Ottanta.
Servizio vincente e partita per Guadagnino!
Con Challengers il regista vince il match, ma sta pur sempre giocando nel campo della sua villa nella campagna piemontese, dove può entrare unicamente il suo noto circolo di membri accuratamente selezionati e in cui, dunque, la condizione di un personaggio con (forse) problemi economici come quello di Patrick è degna solo di qualche fumoso accenno.