Il red carpet del Festival di Cannes, come ogni red carpet che si rispetti, ha abituato gli spettatori ad ammirare i divi più belli (e imbellettati) mostrarsi avvolti da paillette, giganti fiocchi o frange, vestiti sfarzosi, sobri o appariscenti, eleganti o casual (o un mix come la sempre irriverente Jennifer Lawrence in Dior rosso e infradito del 2023). Oltre allo sfoggio di cotanta beltà, però, nelle (altrettanto meravigliose) sale della Croisette spesso si sono dispiegati gli universi disturbanti di pellicole che mostravano corpi trasmutati, ibridati, corpi deformi, mutilati e dilaniati quasi in una perversa logica di contrappasso dantesco.
In questo sottosopra di turpità filmiche, infatti, la 77. edizione del Festival di Cannes non solo ospita in concorso il body horror The Substance di Coralie Fargeat che sfiderà il The Shrouds di David Cronenberg (creatore del sottogenere e, con buona pace dei figli che provano a seguirne le orme, ancora ineguagliabile maestro), ma anche il nuovo capitolo della fortunata serie Mad Max dedicata all’eroina dal braccio meccanico Furiosa.
Tra quest’ultimi esempi e il cineasta canadese che, fin dal 1996, è un habitué della kermesse, si collocano anche le felici esperienze di Julia Ducournau, regista dal cinema brutale capace di intercettare alcune delle nevrastenie delle nuove generazioni.
David Cronenberg – il demiurgo della nuova carne
Approdato a Cannes con Crash, il re dell’horror venereo (già reduce da capolavori quali La mosca e Videodrome) intraprenderà un’assidua frequentazione del festival francese non solo esponendo tematiche che ne hanno forgiato la fama – come il rapporto tossico (tra tecnofilia dei personaggi e la conseguente tecnofobia degli spettatori) tra la scienza, i nuovi media e la psiche di un uomo che arriva persino a essere modificato nella propria dimensione carnale -, ma anche presentando film che scandagliassero più generiche problematiche psicologiche e/o sociali (ad esempio Spider o Maps to the Stars).
Nella folgorante prima partecipazione alla kermesse (che gli è valsa per l’appunto il Premio della critica), David Cronenberg indugia tra i membri di un “club” di psicotici estasiati dalle automobili e dalla velocità a tal punto da ricercare come massima fonte erotizzante mortali incidenti autostradali (ma persino i feticci storici e i reenactment delle morti di James Dean o Diana).
In Crash, perfettamente conforme alla poetica dell’autore, le macchine divengono prolungamento di un corpo (che dopo gli schianti manterrà i segni, i tutori, le ferite, così erotiche nelle loro forme vaginali e nella loro simbologia di compenetrazione tra macchinico e umano) oramai incapace di un autonomo appagamento. Così, dunque, i personaggi ricercano nella mediazione con l’artificiale, nella deflagrazione e penetrazione tra automobili come primo atto di piacere, quasi fossero preliminari di un rapporto sessuale, una forma di godimento che sopperisca all’annichilimento emotivo.
Le forme algide, chirurgicamente controllatissime e inaccessibili all’empatia di Cronenberg ritornano sull’automobile (una passione quasi futurista nella sua emblematizzazione della modernità) anche in Cosmopolis, film in concorso per la Palma d’oro a Cannes nel 2012. Qui una limousine diviene interfaccia (vero e proprio dispositivo multimediale) tra l’umano e la contemporaneità capitalista e fagocitante che lo circonda.
La vettura ammanta il genio dell’alta finanza (Robert Pattinson che serpeggia in una New York fantasmatica alla ricerca di un taglio dal suo parrucchiere di fiducia) quasi fosse il substrato della pelle, un’armatura (o bara), un ritratto di Dorian Gray postmoderno su cui aderiscono tutte le bruttezze da lui commesse lasciandone l’aspetto immacolatamente bello. All’interno di questo ambiente asfittico, in una naturalizzata ibridazione tra cybercapitale e umano, il corpo è libero per lo più di rivelarsi in tutta la sua dimensione più carnale attraverso l’espletazione delle sue funzioni primarie (atto sostentativo e riproduttivo) o mediante il consueto check-up di una prostata sconcertatamente asimmetrica.
Dopo anni il grande ritorno al body horror più puro ancora una volta si celebra per Cronenberg sul red carpet del Festival di Cannes: nel 2022 il regista presenta in concorso Crimes of the Future, il rifacimento (seguendo la sua mitologia quasi un disseppellimento mediale, un essere nato dalla fusione con l’immaginario cinematografico tout court del cineasta) del suo omonimo secondo film.
Le cospirazioni tra terroristi in grado di digerire scarti della società nocivi si intrecciano con le performance di un duo di artisti (di cui, quello interpretato da Viggo Mortensen, capace di generare nuovi organi da esportare poiché dalle funzionalità ignote) mettendo in scena un’ennesima rilettura delle spinte erotiche e violentemente mortifere indotte nel cinema del canadese dalla modificazione dell’organismo e dalla sua ibridazione con dispositivi meccanici in una nuova carne.
Nonostante il retrogusto di bignami artistico, è indicativo riscontrare come, al contrario della maggior parte del suo cinema in cui le mutazioni e gli scenari psicologicamente deviati sono tutti ripresi nelle prossimità dell’atto di valicare un confine etico o biologico, in Crimes of the Future l’ambientazione è già postumana per una critica che si colora anche di ambientalismo anticapitalista (il bisogno di cibarsi dei rifiuti della società stessa), quasi a voler significare un bisogno di guardare ciò che accade oltre il limite poiché questo lo si è già oltrepassato nella realtà.
Julia Ducournau – l’orrore dei corpi giovani
All’arrivo al Festival di Cannes nel 2011 di Julia Ducournau, giovanissima parigina doc capace di rappresentare le nuove generazioni attraverso il gore dell’horror più carnale proprio sulla scia del già amato Cronenberg (di cui riprende persino l’automobile come elemento gravido di simbologie), la kermesse non poteva che inchinarsi. Pertanto, tra lo shock compiaciuto tutto borghese per la ripugnanza esibita, il primo lungometraggio Raw le è valso il Premio FIPRESCI, mentre il secondo (e finora ancora ultimo) Titane l’ambita Palma d’oro.
Con un’estetica assai più appariscente e spesso grottesca (forse sul modello di Gaspar Noé), alla multiprospetticità di tematiche cronenberghiana, i film dell’autrice francese prediligono, invece, un’unità poetica molto coerente andando a collocarsi in quei frementi dibattiti del neofemminismo e del queer.
Aprendosi quasi fosse un’asserzione poetica con il deragliamento di una macchina (ecco Crash), nel cannibalismo di due sorelle in un college dove la violenza e la sopraffazione vigono come regole imperanti, Raw ritrae tutte la problematicità di un periodo nevralgico come quello della giovinezza (in particolare della tardo-adolescenza) nella nostra contemporaneità. La carne stappata da denti umani famelici diviene specchio deformato dei disturbi alimentari, ma anche della ricerca e dell’accettazione del sé e della propria identità sessuale.
Privilegiando e approfondendo quest’ultimo aspetto, il trionfatore a Cannes Titane segue le vicende di una giovane stripper omicida che, rimanendo incinta di un automobile (la sessualizzazione della vettura ancor più esplicita che nel film di Cronenberg poiché connotata anche di mascolinità machista), è costretta a nascondere la propria gravidanza per fingersi il figlio di un pompiere (scomparso anni prima) e, così, fuggire alla legge.
Nella leggera didascalicità (e in una sceneggiatura che fa leva troppo spesso sulla sospensione dell’incredulità) la Ducouranu continua comunque con freschezza visiva le tematiche della pellicola precedente, accentuando la mellifluità della costruzione dell’identità di genere (carnalmente trasformativa ancor prima di quella finale durante il parto), spostando il focus sulla paura della gravidanza (momento di massimo mutamento naturale del corpo umano e dunque momento privilegiato per l’horror venereo), ma anche la crisi della mascolinità in contrapposizione a una rivendicazione di una potenza, anche aggressiva e mortale, femminile.
George Miller – corpi macchinici per un cinema pop
Negli ultimi anni, grazi a un intelligente allargamento di vedute a danno dell’aura di elitarismo operato del direttore artistico Thierry Frémaux, il Festival di Cannes ha iniziato a presentare in anteprima anche opere provenienti dalla cultura pop (ebbene si, anche la saga di Fast & Furious nel 2021 è arrivata a Cannes!). Tra i protagonisti indiscussi delle ultime edizioni, perciò, figura anche il leggendario George Miller il quale, reimmaginando l’universo creato agli albori della sua carriera attraverso un’estetica sempre più follemente punk post-atomica (bisognerebbe coniare un termine per la sua visionarietà), prima con Mad Max: Fury Road, ora con Furiosa: A Mad Max Saga gira un’epopea dalla visualità strabordante capace di rinnovare la facies del cinema d’azione.
Complice a tal fine, oltre a una regia, fotografia, montaggio ed effetti speciali che non richiedono ulteriori (e meritatissimi) elogi, anche un reparto di costumi e trucco e parrucco che ha concepito un fervido universo pullulato di uomini le cui protesi macchiniche (e anche qui tornano le auto – che ora sfrecciano nel deserto tra incidenti e esplosioni – come fil rouge di una comunione eccitativa tra umano e artificiale) risponde a un gusto tutto (video)ludico e fantasioso per oggetti paleo-futuristici.
Nell’attesa di ammirare (e farci perturbare dalle) aberrazioni di celluloide che infestano quest’anno il Festival di Cannes, si può ingannare il tempo immaginando un ennesimo cortocircuito cinematografico in cui, magari proprio con il ritorno della Ducournau dietro la macchina da presa, vedremo i bellissimi attori della kermesse francese perversamente innamorarsi e unirsi simbioticamente a quei corpi orrorificamente dilaniati sul grande schermo.