Firmato dal Maestro Martin Scorsese, Hugo Cabret è l’omaggio del regista italo-americano alla grande storia del cinema.
Tratto dal romanzo La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick, il film di Scorsese sembra quasi un ringraziamento alla settima arte, un regalo, una storia che racchiude La storia.
Vincitore di ben 5 premi Oscar, Hugo Cabret rappresenta tutto quello che non ci si sarebbe mai aspettati da un regista come Martin Scorsese, con la sua poetica riconoscibilissima eternamente divisa tra bene e male.
D’altronde, si sa che anche i più grandi amori hanno bisogno di spazio e così è stato anche per l’amore tra Martin Scorsese e New York, perché nel 2011 il regista si sposta a Parigi per girare il suo Hugo Cabret.
Lontano dalla New York criminale, quella popolata dagli italo-americani della Little Italy per cui il sogno americano non si è mai realizzato davvero; lontano dalle gang e dal sangue di Quei bravi ragazzi, dalla claustrofobica e folle solitudine di Taxi Driver, dalla traballante realtà di Shutter Island, ma anche dalle musiche stile New York, New York; qui Scorsese cambia registro e racconta un universo che sembra essere lontanissimo da lui.
Eppure l’anima del celeberrimo regista è in ogni frame, in ogni magnifico piano sequenza e in ogni amara riflessione che spezza, di tanto in tanto, l’illusione fiabesca.
La storia raccontata è quella di un giovane orfano, appunto Hugo Cabret, che nella Parigi degli anni ’30 vive nella stazione ferroviaria di Paris-Montparnasse. Il padre, Jude Law, muore, lasciando il ragazzo sommerso tra le sue carte e i suoi ricordi, fatti di ingranaggi, lancette e lui: un vecchio automa a cui manca qualche pezzo per poter funzionare. Il ragazzino è Asa Butterfield, bravo come al solito, e accanto a lui c’è l’intensa Clhoe Moretz.
Tra i fumi dei treni, le musiche della vecchia Parigi, i croissant, i fiori freschi e i piccoli ingranaggi da rubare qua e là per rimettere in sesto quell’automa, il film racconta una lunga storia fatta di tante storie.
Sì, perché Hugo Cabret è tanto: è romanzo di formazione, è fiaba, è dramma, è storia del cinema e omaggi sparsi lungo tutta la pellicola dalla durata di due ore. E c’è da dire che se anche le ore fossero state tre non ci saremmo lamentati. In ogni caso, la vita di Hugo scorre tra un fuga e l’altra per scappare dal “cattivo” Sacha Baron Cohen, qui nei panni dell’ispettore ferroviario Gustav, che cerca di rispedire i ragazzini vagabondi in orfanotrofio. Il piccolo vive per dare un senso alla morte di suo padre e il senso sembra arrivare quando incrocia Ben Kingsley, qui nei panni del leggendario Georges Méliès.
Il grande cineasta, padre degli effetti speciali, qui però è già diventato proprietario di un negozio di giocattoli, dopotutto siamo negli anni ’30 e la Grande Guerra ha già portato via il glorioso passato del cinema a tutti, compreso “Papà Georges”.
Ma il cinema c’insegna che nulla è perduto e che, scavando nel passato, c’è sempre qualcosa da scoprire e qui è nientemeno che la nascita del cinema. Sì, perché con quell’incontro tra Hugo e Méliès s’incontrano due epoche e così il cinema degli inizi torna a riempire lo schermo.
Le vecchie pellicole, quelle colorate a mano da Méliès e sua moglie tornano sotto gli occhi di tutti e con lui i primi passi del cinema, quell’arte che secondo i fratelli Lumiere non sarebbe durata, eppure eccoci qua. I ricordi di gloria si accavallano a quelli disperati, tra colori illusioni e delusioni immense, dal mitico e visionario Le Voyage dans la Lune alle pellicole bruciate.
Il montaggio è incredibile, i piani sequenza a regola d’arte, la macchina da presa viaggia in un’ambientazione fantastica e al contempo realistica, condita con la chicca del 3D che Scorsese ha voluto proprio per avvolgere il pubblico, insomma Hugo Cabret è un fantastico viaggio a ritroso nei meandri della storia.
Le musiche di Howard Shore, si mescolano alle scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, in un’atmosfera sognante, quasi favolistica, che se all’inizio ci da una sensazione da film romanticamente drammatico, questo pensiero dura poco, perché Scorsese sa bene come sporcarsi di dramma, con questioni umanissime come il tempo, la memoria, le delusioni e la vita. E nella pellicola tutto asseconda questi cambi di registro, perché in un attimo il regista riesce a spostarsi da atmosfere idilliache e speranzose al cupo grigiore della realtà. Dal bianco e nero del passato ai colori del presente.
Venite a sognare con me
E la storia finisce così, con queste cinque parole messe in bocca al Méliès di Kingsley che sembrano uscire direttamente da Scorsese, che con il suo Hugo Cabret ci porta in un vero e proprio sogno cinematografico.
Dai primi passi dei fratelli Lumière, alle illusioni di Méliès, da Harold Lloyd appeso alla lancetta dell’orologio in Preferisco l’ascensore! a Charlie Chaplin. C’è tutto in questa narrazione fantastica che viaggia nella vecchia cellulosa, tra i maestri del passato, le cineprese e quell’automa che per Hugo rappresenta suo padre, ma che per il vecchio Georges Méliès, e per tutti noi, è un modo per ricordare il grande passato.
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