Mentre l’acqua di Avatar – La via dell’acqua inondava le sale cinematografiche di tutto il mondo avvertivamo una certa nostalgia per un cinema piccolo ma bello, quel cinema che negli ultimi anni si è imposto sotto il genere del documentario e che ha raggiunto il grande pubblico grazie alle numerose piattaforme e ai numerosi festival di corti attivi in varie città italiane.

Una volta il documentario veniva proiettato nelle sale prima del film in programmazione e durava 11 minuti subiti con impazienza dagli spettatori che intanto potevano assistere anche a perle di cinema sull’arte o la natura realizzate da specialisti nel settore afferenti ad esempio alla Documento film di Roma (opere che concorrevano anche ai premi di qualità del ministero e che adesso sono  state restaurate dell’Istituto Luce).

Soltanto in seguito il documentario avrebbe avuto uno sviluppo autonomo con durata variabile e varietà di argomenti.
La storica distinzione pasoliniana tra cinema di prosa e cinema di poesia va estesa anche al documentario dove troviamo declinata la ripresa della realtà ora in forma oggettiva ora in forma lirica con la prevalenza nei casi migliori di una prosa poetica che è quella che troviamo già nei classici del genere degli anni ’40 quali Gente del Po di AntonioniCantiere d’inverno di Ermanno Olmi (dove alla descrizione del dato reale si unisce l’interpretazione umana di esso  espressa dal regista senza alcun partito preso ideologico).

Al genere documentario di poesia appartengono titoli precedenti come Regen – Pioggia di Joris Ivens e Nanuk l’esquimese di Robert Flaherty, due capolavori che in seguito saranno fonte di ispirazione per tanti registi successivi divisi tra cinema astratto e cinema etnologico, con in mezzo una ampia schiera di documentari geografici di ampio respiro come quelli di Attenborough trasmessi in telelevisione.

Un caso epocale di documentario poetico resta quel Koyanisquatsi girato da Godrey Reggio nel 1982, un affresco di vita moderna disordinata composto con materiali di montaggio e con una musica incalzante dal ritmo ossessivo, mentre su un altro fronte spicca il poema lirico Il pianeta azzurro girato da Franco Piavoli.

In tempi più recenti vanno segnalati i road movie Sacro Gra e Notturno di Gianfranco Rosi , il canto epico sulla vita dei contadini calabresi Le quattro volte di Michelangelo Frammartino e il misto di realtà e fantasia presente nei cortometraggi di Pietro Marcello La bocca del lupo e il Passaggio della linea, un regista dallo stile anomalo (che è passato con successo al lungometraggio nel 2019 con  Martin Eden) i cui corti possono essere paragonati a quelli che nel gergo giornalistico sono chiamati elzeviri.

A queste piccole prose poetiche per immagini andrebbero educati oggi i giovani piuttosto che alle lunghe interviste commemorative di personaggi famosi o agli amarcord personali di gruppo.
Comunque, oggi, anche se il corto gareggia con il lungo, grande nostalgia per gli undici minuti prima del sospirato film invece della mitragliata di trailer che dobbiamo subire e che ci dicono già tutto dei film in uscita togliendoci il piacere della sorpresa (e inoltre insofferenza per i kolossal  debordanti in CGE  ambientati in mondi inesistenti stupefacenti ma senz’anima).