Quando giunge il momento di tirare le somme e fare un bilancio della propria vita, il lavoro in genere impegna una fetta preponderante di giudizio. Verrebbe spontaneo pensare che vi siano priorità antecedenti in tutti noi come l’amore, la salute e la famiglia. La realtà è che non esistono aree distinte, ma piuttosto un cocktail vitale in cui gli ingredienti s’influenzano l’un l’altro. Stéphane Brizé, il regista di Un altro mondo, in originale Un autre monde (2021), lo sa bene ed è abile nel toccare con mano i drammi che si celano in quelle stanze piene di uomini con la cravatta.

Questo è in realtà il terzo capitolo di una trilogia del regista francese dedicata al mondo del lavoro, partita con La legge del mercato (2015), e proseguita con In guerra (2018), quest’ultimo presentato alla 71ª edizione del Festival di Cannes.

In una Francia che pende sempre di più dalle labbra delle aziende americane, Philippe Lemesle (Vincent Lindon) e sua moglie Anne (Sandrine Kiberlain) vivono scoraggiati la loro separazione, raccogliendo i cocci di un amore danneggiato dalle pressioni del lavoro.
Dirigente di successo in un gruppo industriale, Philippe non sa più come rispondere agli ordini incoerenti dei suoi superiori. Ieri volevano che fosse un leader, oggi vogliono che sia un esecutore. Le richieste diventano disumane, ogni parola sembra sempre più nociva ogni giorno che passa e il grande capo batte il dito sul suo polso in attesa di risposte.
Philippe è spalle al muro, spaesato da una realtà rovesciata, da una famiglia allo sbando ma anche dal desiderio inflessibile di “fare la cosa giusta”, per dirla alla Spike Lee.

In un altro mondo viene dato enorme rilievo ai primi piani. I volti degli attori sono veicolo d’emozioni e messaggi come non mai, capaci di plasmare significati d’interi dialoghi e, in certi casi, d’intere scene.

È la descrizione della perdita di significato della vita di un dirigente d’azienda che, nello stesso periodo in cui il suo matrimonio sta affondando, guarda negli occhi un’azienda che, dopo anni di servigi, gli volta le spalle senza il benché minimo rimorso. In questo caos senza precedenti, veniamo accompagnati nella lettura di una soluzione, di un’opportunità per mettersi in discussione. Philippe viene spinto a trasformare il limite in vantaggio, unico modo per non restare solamente il perdente della narrazione. Mette sotto la lente d’ingrandimento le sue azioni, le sue responsabilità e il suo posto all’interno dell’azienda e della sua famiglia, conducendolo ad una redenzione per nulla scontata.

Non è facile raccontare una storia così canonica, eccellendo nel donarle la giusta carica emotiva. Stéphane Brizé, padroneggiando a pieno la regia della pellicola, è riuscito non solo a valorizzare una trama essenziale, ma anche ad esaltare le interpretazioni di un cast pregevole.

Se non fossero bastati gli elogi ricevuti dopo esser stato presentato alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, noi insistiamo nel tessergli le lodi. Il film punta la luce su di un uomo nel momento della sua vita in cui verità che sembravano immutabili crollano una dopo l’altra.

Il bivio che gli si presenta dinanzi vede da una parte la rinuncia di qualsivoglia tipo di umanità, e dall’altra la fuga dal luogo di costrizione e sofferenza, dallo status sociale, dall’identità che tanto faticosamente si è costruito negli anni. Al di là della scelta presa e delle sue conseguenze, alla fine della strada ci sarà un altro mondo ad aspettarlo, che lui lo voglia o no.