Tra meno di un mese si potrà vedere a Venezia 78 l’ultima fatica di Paolo Sorrentino: È stata la mano di Dio, un film autobiografico e, sicuramente, il più intimo del regista napoletano.
“Da ragazzi, il futuro ci sembra buio.”- racconta Sorrentino- “barcollanti tra gioie e dolori, ci sentiamo inadeguati. E invece il futuro è là dietro. Bisogna aspettare e cercare. Poi arriva. E sa essere bellissimo. Di questo parla È stata la mano di Dio. Senza trucchi, questa è la mia storia e, probabilmente, anche la vostra”.
Non ci resta che attendere,dunque, per guardare sul grande schermo la nona pellicola di Paolo Sorrentino.
Nell’attesa, Cabiria Magazine celebra il talento del visionario regista partenopeo ripercorrendo la sua carriera.
Nel 2001, dopo dei cortometraggi, Sorrentino realizza il suo primo film: L’uomo in più.
Al centro della storia ci sono due omonimi, Antonio Pisapia. Uno (Toni Servillo) è un cantante di musica leggera che viene accusato di stupro; l’altro (Andrea Renzi) è un calciatore all’apice del successo la cui carriera viene bloccata all’improvviso da un incidente.
Sorrentino ha rivelato che le due esistenze intrecciate nel film rappresentano le proiezioni di quello che lui avrebbe realmente voluto fare nella sua vita: il calciatore e il performer. Inoltre, il personaggio dello sportivo è ispirato ad Agostino Di Bartolomei, mentre quello del cantante ricalca Franco Califano.

L’uomo in più è un esordio notevole. Segna anche l’inizio della collaborazione tra Sorrentino e Toni Servillo. Così, col suo primo lungometraggio, il regista campano ottiene l’interesse di critica e pubblico e porta a casa un Ciak d’Oro, un Nastro d’Argento e tre candidature ai David, tra cui quella per il miglior regista esordiente (premio che fu assegnato a Marco Ponti per Santa Maradona).
Ma è con Le conseguenze dell’amore (2004) che Paolo Sorrentino inizia la sua scalata verso il successo. Il film lo fa approdare alla Croisette del Festival di Cannes e ottenere 5 David di Donatello, 4 Nastri d’Argento e 3 Globi d’Oro.
Il protagonista della pellicola è il Titta di Girolamo (Toni Servillo), che gestisce scambi di denaro sporco sotto ricatto di temibili camorristi. Vive la sua grigia esistenza in un albergo svizzero, ma dei cambiamenti alla sua quotidianità lo portano a riscattarsi e, ahimè, a un finale tragico. Titta pagherà cara la sua audacia. Ma, almeno, riprenderà a vivere a colori, invece di campare in sospeso in un mondo color grigio cemento.
Paolo Sorrentino scrive con la macchina da presa. La sua regia è lenta e sicura; la sceneggiatura
quasi azzardata. L’utilizzo di dolly, glitch, piano sequenza, una minuziosa costruzione dell’inquadratura e la cura per la colonna sonora, sono elementi che caratterizzano questo film e che diventeranno i segni riconoscibili del suo cinema.
Il film è stato inserito tra i 101 film di culto (1001 Movies You Must See Before You Die) secondo Steven Schneider.
Già da questa pellicola, Sorrentino dichiarò che dirigere Servillo è una passeggiata, poiché riesce ad entrare nel personaggio fin dalla prima lettura della sceneggiatura.

Il 2006 è l’anno che segna l’uscita de L’amico di Famiglia; la storia dello sgradevole e senza scrupoli usuraio Geremia (Giacomo Rizzo).
Sorrentino si è ispirato a Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola. Presentato al Festival di Cannes, riceve una tiepida accoglienza.
E’ film che unisce la commedia con il grottesco; è un dramma in cui si ride molto. Proprio per questo è perfetta la scelta del protagonista: Giacomo Rizzo, storico caratterista del teatro napoletano. Indimenticabile la performance di Fabrizio Bentivoglio, nei panni country del braccio destro dell’usuraio Geremia.
L’amico di Famiglia parla soprattutto di solitudine. Tema caro al regista, date le trame dei suoi due film precedenti. I virtuosismi di macchina, la minuziosa direzione artistica e la ricerca della perfezione estetica, si confermano i suoi cavalli di battaglia.
Come in tutti i suoi film, la colonna sonora di questo film è da brividi. Le musiche sono di Teho Teardo con cui collaborerà anche ne Il Divo. Sono rari i registi in Italia che sanno coordinare così bene inquadrature e commento musicale.
Il film, però, non è all’altezza dei primi due di Sorrentino: la storia arriva debole nel finale e smarrisce quasi del tutto la tensione drammatica. Resta sempre, tuttavia, il suo immenso talento nel parlare con le immagini piuttosto che con le parole. Maestria che il regista dimostra anche nel suo film successivo: Il Divo.
E’ il 2008 e Paolo Sorrentino ci racconta le strutture del potere attraverso la sua visione del
sommo statista Giulio Andreotti.
Il titolo del film deriva dal soprannome dato al senatore a vita dal giornalista Mino Pecorelli, ispirandosi a Giulio Cesare. Per trasformarsi in Andreotti, Servillo si è sottoposto a 3 ore di trucco al giorno sotto le sapienti mani dei nominati all’Oscar, Aldo Signoretti e Vittorio Sodano.
Prima di girare il film Paolo Sorrentino si recò due volte a trovare Andreotti nel suo studio di San Lorenzo in Lucina. Accompagnato da Giuseppe D’Avanzo di Repubblica, non chiese nulla sulla mafia o sul delitto Moro, conoscendo bene l’abilità del suo interlocutore nello schivare le domande più insidiose.
Il regista ricavò da quegli incontri il necessario per poter delineare il ritratto di un uomo straordinario, ma anche per mostrare i delicati meccanismi con cui si estrinseca il potere. Il vero Giulio Andreotti definì la pellicola una “mascalzonata“.
Il film è un trionfo al Festival di Cannes, in cui vince il premio speciale della giuria.
Paolo Sorrentino sceglie di ritrarre Andreotti come una caricatura, ma senza mai scadere nella parodia.
Ogni caratteristica del Senatore viene ingigantita grottescamente, così come quelle degli altri politici che lo circondano. Anche la scenografia rispecchia questa volontà di esprimere gli eccessi e la decadenza di questo mondo inverosimile e drammatico. A sottolineare questi elementi, le musiche hanno sonorità dance e pop che creano un deciso e riuscito contrasto con i grigi eventi raccontati nella pellicola.

Quando Sean Penn vide Il Divo, l’attore americano disse testuali parole a Sorrentino: “Paolo, chiamami quando vuoi. Sono a tua disposizione”. E, giustamente, il regista campano ha colto la palla al balzo. This must be the place è stato scritto appositamente per Sean Penn. Se l’attore non avesse accettato la parte, il film non sarebbe mai stato fatto.
Si tratta del primo film di Sorrentino in lingua inglese ed è stato presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2011. Il film ha vinto sei David di Donatello.
Il titolo della pellicola cita la canzone preferita del regista, grande fan dei Talking Heads.
Al centro della storia c’è una rockstar stralunata e annoiata a caccia di un vecchio criminale nazista dopo la morte del papà ebreo. Il personaggio si ispira a Robert Smith dei Cure e il tema principale è quello
dell’assenza del rapporto padre-figlio.
Altrettanto evidente è il tema del viaggio, il cammino da compiere per raggiungere il proprio destino. Il film, infatti, è un percorso spirituale attraverso lande sconfinate e scenari mozzafiato in cui la musica puo’ essere considerata un vero e proprio personaggio.
Il rock è la colonna portante della quinta pellicola di Paolo Sorrentino. David Byrne dei Talking Heads oltre a firmare la colonna sonora, è protagonista di un’esibizione musicale live e compare in un cameo nel ruolo di se stesso. Sorrentino, a dirla tutta, nemmeno ci credeva che avrebbe fatto un film con Sean Penn… Per non parlare di David Byrne! Invece, è riuscito con successo nel suo intento e a realizzare un sogno.
A dispetto del titolo, il film è tutto italiano, a partire dagli sceneggiatori ai produttori. La performance di Sean Penn è indimenticabile e, ancora una volta, Sorrentino colpisce per il suo talento nella direzione artistica e tecnica.
Con This must be the place dimostra di essere un vero e proprio autore, seppure il film non sia di certo il più riuscito del regista. Nessuno, però, può mettere in dubbio la sua maestria nel raccontare le vite altrui da visionario, con originalità. Ed è proprio grazie a queste doti che dopo 15 anni da La vita è bella di Benigni , l’Oscar è tornato in Italia.

Il 2013 segna una vittoria storica per Paolo Sorrentino e per la nostra nazione grazie a La grande bellezza. In origine doveva intitolarsi L’Apparato Umano come il romanzo scritto dal protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo ).
E’ stato presentato in concorso al Festival di Cannes. Ha vinto il Premio Oscar come miglior film straniero, il Golden Globe e il BAFTA nella stessa categoria, quattro European Film Awards, nove David di Donatello (su 18 nomination), cinque Nastri d’Argento e numerosi altri premi internazionali.
Interamente ambientato e girato a Roma, scritto dallo stesso regista insieme a Umberto Contarello, il film ha come protagonista Jep Gambardella, un giornalista e scrittore dolente e disincantato. Ha all’attivo un unico romanzo, L’apparato umano” premiato con il Bancarella molti anni prima. Jep vive di notte, è un festaiolo frequentatore di personaggi disfatti e vacui.
Nobili decaduti, prelati, intellettuali e artisti o presunti tali, esponenti dell’alta società, criminali d’alto bordo, escort, attori… Il mondo di Jep è una rete di rapporti inconsistenti e vuoti che vivono in una Roma addormentata.
L’estetica, l’etica e il religioso: il trittico della grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Un mix tra sacro e profano, sospeso nel tempo e narrato dalla sapiente macchina da presa del regista partenopeo.
Un film che fa vagare la mente e i pensieri, sia quelli dei personaggi che quelli dello spettatore. Anche le musiche, come al solito, giocano un ruolo fondamentale per sorreggere l’ascesa e la caduta dei protagonisti. Per Jep, la grande bellezza non è altro che un miraggio di un amore perduto su uno scoglio al chiaro di luna. Per noi spettatori, invece, è il film a essere davvero una grande bellezza. Per gli occhi, per le orecchie e per il cuore.
Il sesto lungometraggio di Paolo Sorrentino è molto amato all’estero, ma ha diviso il pubblico italiano. Con Youth – la giovinezza il regista perde sicuramente seguaci, ma continua a piacere.
Non a tutti, sia chiaro. Ma a molti. E piace proprio per i motivi per cui gli altri lo detestano: storie sospese, personaggi iconici e grotteschi, uso creativo della macchina da presa. Alla settima pellicola di Sorrentino una cosa è certa: o lo odi o lo ami.
Youth è un film sulla vita, sulla vecchiaia, sulla morte, ma pure sull’eterna giovinezza dell’arte.
I protagonisti sono due vecchi amici, un compositore in pensione (Michael Caine) e un regista cinematografico (Harvey Keitel) in procinto di girare il suo “film-testamento”, si ritrovano in un sanatorio svizzero alle pendici delle Alpi.
Sorrentino ha scritto la sceneggiatura di Youth pensando a Michael Caine come personaggio principale. Mick Boyle, il regista interpretato da Harvey Keitel, non è autobiografico.
E’ un mix di influenze: «ha un pò Roger Corman, un po’ di Sidney Lumet e un po ‘di William Friedkin».
Caine ricorda Jep Gambardella/Servillo per l’indolenza e la caratteristica montatura degli occhiali,
mentre il personaggio di Keitel mescola cinismo e tronfiezza, tratti facilmente riconducibili ai personaggi dei lavori precedenti del regista. In quanto a personaggi, in Youth ce n’è per tutti i gusti. Bizzarri, stizziti, litigiosi… i due vecchi amici tra chiacchierate, memorie e passeggiate ne incontrano di tipi assurdi! Come l’attore hollywoodiano con l’ego trafitto (Paul Dano) o il monaco tibetano in levitazione; il goffo alpinista che tenta di conquistare la figlia del compositore (Rachel Weisz), la ex gloria del cinema passata alla tv (Jane Fonda), Miss Universo (Madalina Ghenea)…
Youth è la fiera dei “personaggi sorrentiniani”, un cast eccezionale diretti da un regista ormai sulla cresta dell’onda.

Così, Sorrentino decide di approdare sul piccolo schermo e di dirigere la sua prima serie: The Young Pope. Dieci puntate per raccontare Lenny Belardo, un seducente arcivescovo di New York di mezza età che viene eletto Papa a sorpresa. La serie è del 2016 e vede nei panni del protagonista Jude Law.
Per farsi primo papa italo-statunitense della storia, Jude Law ha preso lezioni di latino. L’attore ha dichiarato che indossare quei sontuosi paramenti sacri «era come indossare due tappeti». Anche la
tiara papale era pesantissima, benché fosse creata con materiale più leggero e non in metallo pieno come quelle indossate dai suoi veri predecessori.
La serie viene rinnovata per una seconda stagione e nel 2020 John Malkovich affianca Jude Law nel sequel: The New Pope.
Nella prima stagione è stata ricreata la Cappella Sistina (a Cinecittà in scala 1:1.), per questa nuova
avventura pontificia è stata riprodotta una fedelissima copia della Pietà di Michelangelo in scala
(oltre al blocco dell’altare del baldacchino berniniano).
Sicuramente, questo superprodotto diretto da Paolo Sorrentino per Hbo, Sky e Canal+ divide esattamente come il suo protagonista Lenny Belardo.
E’ una serie distopica, lontana anni luce dalla realtà che porta con sé tutto il grottesco dei personaggi del regista partenopeo e tutto il suo stile di ripresa. Insomma, The Young Pope e The New Pope provocano amore cieco oppure odio assoluto.
Tra la prima e la seconda stagione della serie, Paolo Sorrentino realizza Loro.
Toni Servillo diventa Berlusconi affidandosi a Maurizio Silvi e Aldo Signoretti (vincitori dell’Oscar per il Miglior Trucco per Moulin Rouge!).
Il film occhieggia allo Scorsese di The Wolf of Wall Street.
Sorrentino lascia parlare i fatti. Sceglie di non esprimere giudizi politici e morali, ma descrive il suo Berlusconi in maniera oggettiva. Estroverso, ma allo stesso tempo introverso, questo personaggio non ha bisogno di critiche, è ridicolo nel suo animo.
Il regista ce lo mostra per quello che è. Schiavo del suo ego, la mondanità è il suo regno. Il suo desiderio di onnipotenza lo rende prigioniero della sua esistenza. E’ uno stravagante mago di Oz circondato da pupazzi sempre pronti a leccargli i piedi. Elena Sofia Ricci interpreta Veronica Lario e per questo ruolo ha vinto il David di Donatello. Il film, complessivamente, ne ha vinti due e anche 4 Nastri d’Argento.
Sul fatto che Paolo Sorrentino sia un Artista non ci sono dubbi. I suoi film non sono mai dimenticabili, sia per chi lo ama follemente sia per chi lo odia ciecamente. Si tratta sicuramente di un regista controverso, un visionario, un esteta, un poeta.
Il pessimismo leopardiano è alla base dei suoi racconti, così come le storie sospese, le figure grottesche…
Quel raccontare per immagini che segna la sua filmografia. Il suo talento è innegabile, soprattutto quello nel portare lo spettatore nell’ universo sorrentiniano fatto di sogni e realtà.
Chissà la sua fantasia dove ci porterà… Per adesso, sicuramente al Lido di Venezia. Non ci resta che aspettare e vedere se a guidarlo nella sua carriera E’ stata la mano di Dio.
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