Un fantasma si aggira per gli schermi di tutto il mondo, quello della lotta di classe.
In un’epoca che vede aumentare sempre più il divario tra i pochi ricchi e i tanti poveri torna di attualità nel cinema, che della società è lo specchio, l’idea veteromarxista della lotta di classe che sembrava superata in seguito al crescente fenomeno della globalizzazione. Già evocata in sottofondo nel film Joker di Todd Phillips e in Noi di Jordan Peele, adesso essa riappare con evidenza didascalica in Parasite del regista sudcoreano vincitore dell’Oscar Bong Joon-Ho, ma in questo caso lo fa alla luce di una logica che cambia i termini del rapporto dialettico tra le classi.
Nell’apologo di Bong Joon-Ho i poveri non vogliono eliminare i ricchi, ma vogliono soltanto accedere allo stesso benessere di cui quelli godono (con buona pace dell’antico orgoglio di classe proletario) e per fare ciò ricorrono a tutti i mezzi leciti e sopratutto illeciti. La misera famiglia Ki-taek che nel film si infiltra in quella del ricco Park non ha più nulla della antica nobiltà dei lavoratori (tipo quelli raffigurati nel celebre quadro Il quarto stato di Pellizza da Volpedo), ma sembra una famiglia di cannibali assassini uscita da un film horror persa nel sogno di una vita migliore da raggiungere costi quel che costi rispetto il non-stato cui appartengono i suoi componenti. In questa loro aspirazione viene spontaneo condividere il piano criminale da essi (padre, madre, figlio e figlia) escogitato vista l’immutabilità delle posizioni sociali dove i poveri (ma anche i ricchi) sono prigionieri della loro classe di appartenenza e infatti ad essi va la simpatia del pubblico (vista anche la disarmante ingenuità dei coniugi che non esitano ad assumerli come nuovi servitori), questo almeno fino a quando il gioco non raggiunge esiti tragici.
La condizione umana bloccata delle due famiglie è rappresentata sul piano visivo dal ricorso alla figura della “scatola” come immagine-simbolo che percorre tutto il film, una immagine che funge da significante della esistenza “inscatolata” che accomuna le due famiglie, seppur in contesti diversi quali sono il tugurio sotto il livello stradale in cui vive la prima e la splendida villa con giardino con annesso bunker sotterraneo dove abita l’altra. Sul piano figurativo tale condizione dei personaggi viene resa dal regista mediante l’impiego sistematico di inquadrature basate sulla tecnica del surcadrage per cui persone e azioni sono viste inserite dentro cornici formate da finestre, porte, corridoi e botole mediante un flusso incessante di lenti carrelli alternati a inquadrature fisse che conferisce alla storia una atmosfera sospesa da thriller rarefatto fino all’esplosione della catastrofe finale.
Parasite è una divertente commedia nera esempio di un moderno cinema della crudeltà (dove la crudeltà sta nel rigore dello sguardo del regista che rende insostenibili le immagini pur nell’alternanza di toni che svariano dal realismo al grottesco e dal grottesco allo splatter più cruento) ed è sopratutto una grande lezione di cinema.
Una grande lezione su come si gira un film per l’uso insinuante dei movimenti della cinepresa, per l’impiego espressivo delle scenografie (la villa della famiglia ricca è una delle protagoniste del film, sull’esempio di quanto accadeva in Il servo girato da Joseph Losey nel 1963 anch’esso storia di un ricco giovane inetto che viene asservito dal suo subdolo cameriere, film citato dallo stesso Bong-Joon-Ho come una delle sue fonti di ispirazione assieme a Il buio nella mente di Chabrol) e infine lo è per il ritmo musicale con cui si susseguono le sequenze secondo un lento, ma inarrestabile climax che fa cambiare di segno al tono del racconto con scatti progressivi e inattesi. I poveri di oggi descritti in Parasite invece di aiutarsi si combattono tra loro senza esclusione di colpi e non reclamano più il diritto al pane ma quello al wi-fi, come si vede nella sequenza d’apertura dove la famiglia rassegnata alla miseria viene però presa dal panico dalla scomparsa del collegamento wi-fi, come dire che oggi il sol dell’avvenire è quello dello schermo illuminato dello smartphone di ultima generazione (anche se, a dire il vero, nel finale il giovane Ki-taek, in libertà vigilata dopo essere scampato all’eccidio, lo sostituisce per fortuna e alla faccia di Samsung con il glorioso alfabeto morse per comunicare col padre rimasto segregato nella villa mentre intanto lui si ostina a coltivare il suo sogno di una cosa, nel nostro caso di una casa).
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